Hannah Arendt, una filosofa molto irregolare rispetto allo schema coatto delle partizioni politiche novecentesche (destra/sinistra, socialismo/capitalismo), diede un’interpretazione altrettanto irregolare della barbarie nazista e della macchina dello sterminio, intendendo la disciplinata milizia dei burocrati del male come una forma di alienazione dalla responsabilità del “pensiero” e non di diabolica e deliberata malvagità.
Senza troppo approfondire ciò che la Arendt intendeva per “pensiero”, basti considerare che il termine equivalente nel linguaggio comune è quello di “coscienza”, cioè di una valutazione consapevole e onesta delle conseguenze delle proprie azioni e non solo della loro aderenza a un ideale morale astrattamente condivisibile (ad esempio l’obbedienza agli ordini legittimamente impartiti, la difesa del superiore interesse dello Stato, il servizio alla propria comunità…).
Interpretare il nazismo non in base a cosa era successo nella testa di Hitler, ma nelle teste di milioni di tedeschi che gli si misero disciplinatamente al servizio, fu considerata anche tra gli ebrei e in Israele una scandalosa diserzione e un atto di disprezzo nei confronti delle vittime, perché tra i complici di quella macchina impersonale che portava ai forni milioni di sventurati Hannah Arendt computò anche quei dirigenti delle organizzazioni ebraiche che collaborarono con l’Olocausto persuasi di non avere alternative.
Il fatto che l’essenza di Adolf Eichmann (e di tutti gli Eichmann che esercitavano il potere del Reich) fosse individuata in una stolida e quasi fantozziana mediocrità sembrava tradire e contraddire la disumanità mostruosa della Shoah e relativizzarne la portata. Invece ne scopriva la radice più profonda, perché nulla sarebbe potuto succedere se Hitler fosse rimasto una persona orribile e disturbata, rinchiuso nel suo delirio di frustrazione e potenza e non fosse diventato la coscienza collettiva di un popolo, surrogando le coscienze individuali dei tedeschi e la loro capacità di chiedersi cosa stessero davvero facendo e di rispondersi in modo pertinente: “Ammazzare milioni di ebrei”.
La banalità del male, che è il titolo del libro della Arendt dedicato al processo a Eichmann, torna spesso nella pubblicistica in modo davvero banale. Ma oggi dovrebbe tornare – almeno me lo auguro – in piccole minoranze insorgenti contro la normalità dell’orrore e contro la routine della catastrofe, come il titolo di una rivolta o di una opposizione politica magari irrilevante, ma visibile.
L’impressione, forse nello scrivente condizionata dal trauma della fuga occidentale da Kabul, ma più probabilmente istigata dall’irridente derubricazione della questione dei diritti umani da principio universalistico a lusso buonistico, è che buona parte dell’opinione pubblica occidentale – lasciamo stare i governi che sono tutti, ormai per definizione, brutti, sporchi e cattivi e lasciamo perdere pure questa paradossale deriva sensocomunista dell’immagine degli Stati sovrani al tempo del sovranismo – consideri non solo inevitabile, ma opportuna la liquidazione del nation building e di tutte le fantasie sull’esportazione dello Stato di diritto e della democrazia, per tornare a un equilibrio tra potenze, in cui la maggioranza demografica e presto pure economica dell’umanità sia compresa nella coalizione che va da Haibatullah Akhundzada a Xi Jinping e noi occidentali – per non dire di noi europei e italiani – si stia tranquilli dall’altra parte del mondo (riconosciuta da chi come “altra”?), a farci i fatti nostri e noi italiani le nostre quote 100, i nostri redditi di cittadinanza, le nostre Ita, i nostri premi di produttività per i dipendenti di Roma Capitale, senza troppi profughi (perché i terroristi, signora mia, si infiltrano tra i fuggitivi) e migranti disperati (perché mio figlio ha fatto l’alberghiero e il pizzaiolo sotto casa è egiziano).
C’è forse una banalità non solo del male fatto, ma anche di quello auto-imposto e subito, cioè della sottovalutazione di tutte le conseguenze dell’idea alienata che un mondo segmentato e distanziato da confini tanto più sacri, quanto ormai inesistenti, perché indifendibili, possa essere una salvezza per qualcuno a scapito di qualcun altro e non una maledizione per tutti.
Bisognerebbe cioè sforzarsi di riflettere sul successo dei talebani, vent’anni dopo, non sulla base di quello che succede nella testa dei cosiddetti studenti coranici, ma in quella dei milioni di occidentali che hanno ritenuto, sul piano delle conseguenze, preferibile questo 8 settembre planetario rispetto alla prosecuzione di un impegno militare e politico, che non doveva fronteggiare le forze armate di una soverchiante potenza nucleare, ma una guerriglia che, riconquistato l’Afghanistan, non sa neppure come fare funzionare l’aeroporto di Kabul e i sistemi di pagamento delle banche.
Oggi il male dilaga, in forma terroristicamente e politicamente epidemica, con ricaschi che arriveranno presto vicinissimi ai confini nazionali degli Stati che pensavano di essersi, per così dire, ritirati dal suo campo d’azione, perché il pensiero di questo male è stato alienato e dirottato dalla valutazione delle conseguenze a quello della matrice, per così dire, formale degli eventi e delle decisioni. Nessun leader politico ritiene di dover rispondere delle conseguenze delle proprie azioni, ma solo della loro conformità alle istanze dell’opinione pubblica, che riflette quelle categorie vuote, a partire da quelle della pace e della guerra, a cui si è ridotto il “non pensiero” nella sua diretta espressione politica che è, oggi come ieri, il nazionalismo.
Perfino i talebani, sulla base di un principio formalistico e approssimativamente nazionalista, sono stati promossi a rappresentanti riconosciuti delle masse afghane, visto il loro repentino successo militare. Il principio di autodeterminazione dei popoli – senza nessuna considerazione in termini di etica delle conseguenze – è diventato il feticcio del disimpegno universale da ogni scenario di crisi (per quello che ci riguarda più direttamente i casi libico e siriano sono eclatanti), come se questo principio legittimasse qualunque stato di fatto, comunque conseguito, anche nelle realtà statuali in cui non esiste né lo Stato, né in senso stretto un popolo nazionale.
L’assenza di pensiero, anzi il ripudio del pensiero come responsabilità morale rispetto alle conseguenze delle azioni, si esprime in primo luogo nell’incapacità di riconoscere l’orrore e nella tendenza a misurarsi con la verità mostruosa dei fatti sulla base di una rappresentazione neutrale e addomesticata. Come si può decentemente rivendicare di avere ospitato più profughi afghani di tutti gli altri Paesi europei, come ha fatto Luigi Di Maio, se non rimuovendo dalla coscienza la verità di averne abbandonati milioni? Come si può pretendere che i profughi afghani «non gravino sull’Europa», come ha detto la porta ordini di Viktor Orbán in Italia, Giorgia Meloni, se non cancellando la consapevolezza che la disperazione di chi si aggrappa ai carrelli e alle ali degli ultimi aerei in partenza da Kabul è il prodotto politico anche dell’ignavia e del “realismo” europeo e italiano, cioè di una fuga presentata dal ministro di cui sopra, non più di qualche mese fa, come una «decisione storica»?
Più di ogni sproporzione nei rapporti di forza (che, ripetiamo, in Afghanistan era tutta a favore di chi se n’è andato) o di ogni considerazione di sostenibilità politica ed economica della manutenzione degli equilibri mondiali, a terrorizzare dovrebbe essere questa oggettiva dismisura tra la realtà dei fatti e la capienza delle teste di chi dovrebbe fronteggiarne l’evoluzione mostruosa e si limita a esorcizzarli, nella convinzione di fare così il proprio dovere, di obbedire agli interessi dello Stato e perfino di guadagnarsi una buona reputazione umanitaria.