Può dirsi storica, senza tema di enfasi, la nomina annunciata il 5 agosto da Joe Biden, che ha designato Beth Robinson quale giudice della Corte d’appello degli Stati Uniti per il Secondo Circuito, competente sui distretti di Connecticut, New York e Vermont. Se confermata dal Senato, la magistrata, scelta a occupare la scranna vacante per la morte di Peter W. Hall (11 marzo 2021), sarebbe la prima donna dichiaratamente lesbica a sedere in una Corte d’appello di tale genere. Che, per capirsi, è una delle 13 – quanti sono i circuiti di pertinenza – costituenti l’anello intermedio, nel sistema giurisdizionale federale, tra la Corte suprema e le 94 Corti distrettuali o tribunali di primo grado.
Ma la nomina di Beth Robinson, resa nota insieme con quelle della giudice Mary Katherine Dimke alla Corte distrettuale per il distretto orientale di Washington, dell’avvocata Charlotte Sweeney, anche lei lesbica, alla Corte distrettuale del Colorado e del giudice amministrativo John P. Howard III alla Corte d’appello per il Circuito del distretto di Columbia, ha in sé significato e valore, che vanno ben al di là dell’accennato primato. Biden, che ha così portato a 35 il numero di giudici federali da lui finora indicati, non solo ha mantenuto nuovamente fede alla promessa di garantire «che i tribunali della nazione riflettano la diversità. Diversità che – così il relativo comunicato della Casa Bianca – è una delle nostre più grandi risorse come Paese in termini di background sia personale sia professionale». Ma soprattutto ha lanciato un messaggio fortemente simbolico, rilevando, ancora una volta, la preminenza delle battaglie legali per i diritti delle persone Lgbtq+, di cui la giudice è paladina e riconosciuta icona.
Nata in Indiana il 6 marzo 1965 e legata da tempo alla ginecologa Kim Boyman, con cui si è prima unita civilmente nel 2001, quindi sposata nel 2010, Beth Robinson può vantare uno straordinario curriculum giuridico. Dopo aver conseguito il grado accademico di bachelor of arts presso il Dartmouth College nel 1986 e quello di juris doctor presso l’University of Chicago Law School nel 1989, è stata assistente giuridica di David B. Sentelle, giudice della Corte d’appello per il distretto di Columbia, dal 1989 al 1990, e quindi, nell’anno successivo, associata a Skadden, Arps, Slate, Meagher & Flom di Washington, dove si è principalmente dedicata alla difesa penale dei colletti bianchi.
A imporla però all’attenzione comune è stata l’attività professionale presso il prestigioso studio legale Langrock Sperry & Wool a Middlebury e a Burlington nel Vermont, che l’ha vista impegnata dal 1993 al 2010 come civilista. Per 18 anni si è soprattutto occupata di diritto occupazionale, risarcimento dei lavoratori, controversie contrattuali, diritto di famiglia.
In questa veste e come rappresentante della comunità Lgbtq+ è stata co-legale con Susan Murray e Mary Bonauto nella causa Baker v. Vermont, la storica decisione del 20 dicembre 1999 che ha portato lo Stato nord-orientale a diventare il primo negli Usa a riconoscere le unioni civili. Successivamente è stata alla guida della Vermont Freedom to Marry Task Force, organismo che ha avuto un ruolo fondamentale nella battaglia per l’introduzione del matrimonio egualitario nel Vermont. Anche in questo caso lo Stato del New England ha fatto da apripista, perché per la prima volta negli Usa l’estensione delle nozze alle coppie dello stesso sesso è stata legalizzata per via legislativa attraverso il Marriage Equality Act, entrato in vigore il 1° settembre 2009, e non per via giudiziaria, come era già avvenuto in Massachusetts, California, Connecticut e Iowa.
Consigliera per poco più di un anno dell’allora governatore del Vermont e convinto sostenitore del matrimonio egualitario, Peter Shumlin, Beth Robinson è stata da questi nominata, il 18 ottobre 2011, giudice della locale Corte Suprema e confermata come tale all’unanimità dal Senato il 7 febbraio 2012. È divenuta così una dei dodici giudici delle Corti supreme statali, attualmente in servizio, ad appartenere alla comunità Lgbtq+ insieme con Monica Márquez, Sabrina McKenna, Andrew J. McDonald, Mary Yu, Lynn Nakamoto, Margaret Chutich, Lidia Stiglich, Elspeth B. Cypher, G. Helen Whitener, Martin Jenkins, Anthony Cannataro.
Alla nomina di Beth Robinson si può accostare per importanza e recenziorità quella di una lesbica illustre a livello internazionale quale Sharon Kleinbaum, attivista per i diritti tanto umani, inclusa la libertà religiosa, quanto civili e dal 1992 rabbina a capo della Congregazione Beit Simchat Torah (Cbst), che, fondata a Manhattan nel 1973, è la sinagoga Lgbtq+ più grande al mondo. Il 30 luglio Biden l’ha designata a membro della Commissione degli Stati Uniti sulla libertà religiosa internazionale (Uscirf). Carica, questa, che non necessita di approvazione da parte del Congresso. Nel darne notizia la Casa Bianca ha evidenziato come «la leadership di lunga data di Sharon Kleinbaum nella Congregazione Beth Simchat Torah e il suo lineare attivismo l’abbiano resa una voce potente per la libertà religiosa, i diritti Lgbtq e altri diritti umani in America e nel mondo».
Secondo quanto dichiarato a Linkiesta da Paola Guazzo, intellettuale lesbica e componente della rete Lesbicx, che ha recentemente firmato la prefazione della riedizione del volume di Gabriella Romano “I sapori della seduzione. Il ricettario dell’amore tra donne nell’Italia degli anni ’50” (uscirà a settembre per i tipi di Oblique), «le nomine della rabbina Kleinbaum e della giudice Robinson costituiscono un momento molto importante, non solo per gli Stati Uniti. Si tratta di un altro passo avanti per le lesbiche di tutto il mondo, persino per le pavide italiane. Trovo poi le figure di Sharon e Beth affascinantissime, se posso permettermi una considerazione emozionale. Sono due lesbiche dichiarate e note a livello mondiale. Eppure, i nostri media hanno preferito o passare pressoché sotto silenzio la nomina della prima o trascurare, con il loro noto gusto per le omissioni significative, il lesbismo della seconda. Lo stesso trattamento, insomma, riservato all’icona lesbica nera Angela Davis, tanto per citare un esempio noto».