Ambiente di lavoroPerché la transizione energetica aiuti l’occupazione bisogna inserire la spina degli investimenti

La rivoluzione produttiva che il cambiamento climatico rende urgente estinguerà alcune professioni e stravolgerà settori centrali come quello dell’automotive. Eppure, la rivoluzione green potrebbe creare più posti di quanti ne cancelli. Perché questo avvenga occorre però una programmazione che coinvolga imprese e governo. E servono tanti soldi

Photo by Ralph Hutter on Unsplash

Ogni transizione, da che mondo è mondo, produce una schiera di mestieri dimenticati. Dall’accenditore dei lampioni a gas che nell’Ottocento rischiaravano le città di notte, fino al tagliatore di ghiaccio prima dell’avvento delle moderne tecniche di refrigerazione. La transizione energetica che si realizzerà da qui al 2050 non sarà da meno. Ne è consapevole la Commissione europea, che nei documenti del maxipiano per il clima battezzato “Fit for 55” chiarisce che l’impatto sociale e le ripercussioni sul mercato del lavoro saranno considerevoli. Ne è ben consapevole anche il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, quando, nel corso del G20 di Napoli sull’ambiente, recita il refrain «nessuno dovrà essere lasciato indietro». Guardiamoci in faccia: qualcuno indietro ci resterà di sicuro. Ma la sfida green potrebbe anche creare più lavori di quelli che farà soccombere.

«Troppo spesso si sottolineano i problemi connessi con la crisi climatica e troppo poco le opportunità», commenta Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola e tra i fondatori di Legambiente. «Ci sono interi settori in movimento che producono lavoro dentro questa sfida. Il punto è capire se i Paesi che vogliono guidare la transizione, l’Europa in primis, decideranno di aprire altri negozi Blockbuster o punteranno su altro». Della serie: alcuni comparti, al pari del franchising di noleggio film, spariranno comunque. E la scelta è adeguarsi o perire.

In effetti, scongiurare la crisi climatica potrebbe anche giovare al mercato del lavoro secondo uno studio realizzato da Rff-Cmcc European Institute on Economics and the Environment e appena pubblicato sulla rivista One Earth. Rispettando gli obiettivi sanciti dagli accordi di Parigi – con il contenimento del riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C – i posti di lavoro nel settore energetico potrebbero crescere dagli attuali 8 milioni a 26 milioni entro il 2050, grazie soprattutto alla spinta dell’industria eolica e solare (la ricerca è tarata su 50 Paesi, compresi i principali produttori di combustibili fossili). Di questi 26 milioni, la stragrande maggioranza (84 per cento) sarebbe nel settore delle energie rinnovabili e solo l’11 per cento in quello dei combustibili fossili.

Un totale capovolgimento, dato che allo stato dell’arte nei combustibili fossili lavorano 8 occupati su 10 del settore energetico. Non è un caso che nel 2016 Donald Trump, durante la campagna per le elezioni presidenziali, abbia fatto riferimento ai minatori di carbone per ben 294 volte nei suoi comizi. Persino i politici verdi e gli ambientalisti invocano sempre una “transizione giusta” per i lavoratori del comparto dei combustibili fossili.

«È preferibile riconvertire i settori tradizionali dell’energia piuttosto che farli sparire, salvaguardando posti di lavoro e competenze cresciute nei territori in decenni di attività», commenta il presidente di Confindustria Energia Giuseppe Ricci. Che traccia anche una direzione possibile: «La trasformazione si può fare puntando sui biocarburanti – l’esempio delle bioraffinerie di Venezia e Gela è emblematico – sulla cattura, lo stoccaggio e il riutilizzo della CO2, sullo sviluppo della filiera dell’idrogeno». Anche se queste soluzioni non raccolgono il placet unanime degli esperti, che non sempre le ritengono compatibili con il contrasto al cambiamento climatico. Peraltro, oggi in Italia quasi tutto l’idrogeno viene prodotto e utilizzato proprio in uno di quei settori, la raffinazione, che nella transizione energetica diventerà sempre più marginale visto il suo impatto inquinante. «Certo ci sono costi da sostenere», continua Ricci, «ma i benefici saranno enormemente superiori se pensiamo al riutilizzo delle infrastrutture e delle competenze».

Ma non saranno solo i combustibili fossili a subire la scure della transizione energetica. Tra i più immediatamente coinvolti si aggiungono i settori cosiddetti “hard to abate”, dove la decarbonizzazione è particolarmente gravosa (letteralmente, dove è più difficile abbattere le emissioni di gas serra): acciaio, chimica, ceramica, carta, vetro, cemento, fonderie. Che rappresentano il 18 per cento delle emissioni di CO2 italiane e che in termini di occupazione e Pil valgono ancora di più, con 700mila posti di lavoro e 88 miliardi di valore aggiunto lordo. Un centro nevralgico della filiera economica nazionale, visto che riforniscono tutti i settori manifatturieri a valle. Non stupisce troppo, allora, che queste industrie energivore abbiano presentato il conto al governo, con un documento redatto da Boston Consulting Group che delinea i prossimi passi per evitare la tegola da 15 miliardi che potrebbe cadere da qui al 2030, a causa dei nuovi vincoli europei.

E poi c’è il vero convitato di pietra, il settore automotive, su cui pende la scadenza del 2035 per lo stop alla vendita di auto con motore a combustione interna. «Mettere fuori mercato fra quattordici anni i motori diesel, a benzina e anche gli ibridi farà scattare l’allarme occupazionale all’interno della filiera dell’auto, sia in Italia sia in Europa» commenta Gianmarco Giorda, direttore generale dell’Anfia (Associazione nazionale filiera industria automobilistica). Basti pensare che in Europa l’industria dell’automotive dà lavoro a quasi 14 milioni di persone, tra occupazione diretta e indiretta (dati Acea). E che nel 2018 in Italia il numero degli occupati ammontava a oltre 302 mila unità, tenendo conto sia del settore produttivo tout court, sia della rete commerciale. Secondo l’Anfia una transizione verde troppo rapida – come quella (secondo loro) preconizzata dall’Europa – metterebbe a rischio tra i 60 e i 70mila posti di lavoro nelle aziende della componentistica auto che non sono attive nell’elettrificazione.

Questo perché un veicolo elettrico richiede circa la metà del tempo per essere assemblato rispetto alle auto tradizionali, e il numero di componenti si riduce di un terzo, da 30 a 20 mila. Oltre al fatto che l’auto elettrica esige meno manutenzione. «Insomma, la torta nel settore automotive diventerà più piccola» aggiunge Giorda. Un destino che però ha poco a che fare con le scelte della Commissione europea, dato che l’elettrificazione appare l’evoluzione naturale del settore automotive. L’industria si fonda sull’efficienza dei processi produttivi, e se un’innovazione comporta minori costi d’assemblaggio, minore manutenzione e per giunta minore inquinamento, la “colpa” non è certo di Bruxelles. Tanto che quasi tutti i gruppi europei hanno da tempo annunciato investimenti miliardari nell’elettrico (e scadenze a volte più ambiziose del 2035).

Ma – è vero – questo non elude il tema più imminente dei rischi occupazionali. Il primo a sollevare qualche perplessità era stato lo stesso ministro Cingolani, specialmente rispetto alla nicchia delle supercar, le vetture di lusso targate Ferrari o Lamborghini: «A tecnologia costante, con l’assetto costante, la Motor Valley emiliana la chiudiamo» aveva detto, parlando dell’adeguamento al full electric. Anche se non si capisce perché un ministro dell’Ambiente debba preoccuparsi più delle sorti della Ferrari che della lotta al cambiamento climatico.

L’asso nella manica dell’Unione europea per lenire le ferite è il nuovo Fondo sociale per il clima, che assegnerà agli Stati membri circa 72 miliardi – più altri finanziamenti nazionali per un totale di oltre 140 miliardi – da redistribuire direttamente alle persone e ai settori più colpiti dalla trasformazione del tessuto industriale europeo. Ma anche se in valori assoluti il saldo finale potrebbe non essere negativo – si pensi alla filiera delle batterie inevitabilmente destinata a crescere, si spera in Europa e non in Cina – per centinaia di migliaia di lavoratori sopravvivere alla transizione energetica significherà comunque riqualificarsi. Perché un conto è mettere le mani su una marmitta, un conto è metterle su una batteria.

«Stiamo lavorando con il governo italiano, servono strumenti per gestire in modo proattivo la transizione» continua Giorda, «un supporto agli investimenti in ricerca e sviluppo, per sostituire i macchinari e per riqualificare le competenze nelle aziende. Tutto il paradigma della mobilità andrà rivisto». E l’Italia non parte proprio dalle prime file, da sempre in fondo alle classifiche Ocse sulla formazione permanente e l’aggiornamento dei lavoratori. Senza contare poi la distribuzione delle infrastrutture di ricarica sul territorio nazionale, in mancanza delle quali il ripensamento della mobilità darà pochi frutti (l’Italia è al 14esimo posto in Europa, con 2,7 punti ogni 100 km).

Insomma, la morale è che il tempo a disposizione per la transizione verde è poco, in parte perché l’Unione europea ha avviato il timer, in parte (quella preponderante) perché la crisi climatica sta accelerando. E per evitare che a pagare lo scotto siano i più deboli, ci sarà bisogno di un poderoso intervento pubblico, tra formazione, colonnine e trasformazione dei processi produttivi. Che alla fine potrebbe costarci anche più di quanto abbiamo pagato per il Covid. E stiamo cominciando ad accorgercene.

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