Il green pass della psichedelia“Are you Experienced” di Jimi Hendrix è il biglietto d’ingresso per un altro mondo

Anche mezzo secolo dopo l’uscita, questo album incredibile ha la stessa magia di un alieno sceso in terra con strumenti e tecniche sconosciute. Un’esperienza che ha segnato generazioni di ascoltatori, musicisti e appassionati. Read&Listen

“Are you Experienced” è il perfetto biglietto d’ingresso in un altro mondo. Il Green Pass della psichedelìa. Un’esperienza sensoriale che ancora oggi, più di 50 anni dopo, suona come se un alieno sia sceso in terra con strumenti e tecniche sconosciute. Pensate all’impatto che il primo disco di Jimi Hendrix, forse il debutto più devastante e influente della storia, deve aver avuto sulle menti dei ragazzi di fine anni ‘60. Avete fatto l’esperienza? Certamente no, fino ad allora. Ma quell’esperienza avrebbe segnato una generazione non solo di ascoltatori, ma anche di musicisti, chitarristi in particolare. Perché dopo quell’esperienza, il mondo non sarebbe più stato lo stesso.

Quando Jimi sbarca dall’aereo in Inghilterra, il 23 settembre del 1966, non ha in tasca un soldo, né un vero curriculum. Ex paracadutista dell’Esercito americano, quando si congeda nel luglio del ’62 a Fort Campbell, sul confine del Tennessee, un po’ ammaccato dagli ultimi lanci e con parecchie note disciplinari sul registro, brucia i suoi 400 dollari in una notte di baldoria e si ritrova senza neanche i soldi del biglietto per Seattle, dove lo aspetterebbe la famiglia cui è molto legato. Per affinità naturale punta al Sud, dove spera di guadagnare facendo quello che sa fare meglio: suonare la chitarra, da mancino. Sarà più lunga e più dura di quello che pensa.

A Clarksville, una delle città-simbolo del Delta blues, fa amicizia con Billy Cox, che suona un funky bass e che richiamerà a sé molti anni dopo. Ama il folk blues della regione che ha dato i natali a Elmore James, Muddy Waters, Howlin’ Wolf. In particolare, adora Robert Johnson, «so cool. Ma questo non vuol dire che ci sia solo quel tipo di blues. Ognuno ha il suo da offrire, you know».

Poi ci sono anche quelli che il blues elettrico l’hanno inventato: Albert Collins, Albert King, «uno dei blues più funky che io abbia mai sentito». Come racconta un libro-diario costruito sulle sue dichiarazioni in quegli anni, “Starting At Zero – His Own Story”, «la maggior parte dei chitarristi vengono dal Sud. Da quelle parti, qualcuno che muore di fame, di cui non conosci il nome, potrebbe essere il miglior chitarrista che tu abbia mai sentito». È evidente di chi sta parlando.

Il pubblico che incontra in questo peregrinare fra juke joints, night club, teatri, bar e cafè a bordo strada, è tosto, sono abituati a sentire il meglio, ma sono anche perfetti per crescere, confrontarsi.

L’idea di suonare coi denti gli viene in un locale del Tennessee, «dove se non suoni coi denti ti sparano. Ci sono denti dappertutto, sul palco». Per anni quel ragazzo nero magro e dinoccolato di nome James Marshall si batte tutto quel Chitlin’ Circuit che è l’unico a garantire agli artisti neri un pubblico e una protezione dai segregazionisti: entra in gruppi di cover dei top 40 di ‘rn’b, «cattiva paga, vita schifosa, sempre fregato», ormai stufo del ‘gotta gotta gotta’ di “In The Midnight Hour”, il superhit di Wilson Pickett. Vince l’amateur contest all’Apollo in Harlem, ma le notti a dormire nei vicoli in mezzo alla spazzatura sono l’altro lato della medaglia: «Non avevo altro da mangiare che un “wish sandwich”, il sandwich dei desideri: due fette di pane, desiderando di avere un po’ di carne in mezzo».

Trova un ingaggio con gli Isley Brothers (quelli dell’originale “Twist and Shout”), ma che noia tutte quelle canzoni in Fa, poi con Little Richard, che gli intima di non vestirsi né atteggiarsi in modo flashoso, «io sono l’unico che deve apparire carino sul palco».

Alla fine, a New York porta il suo talento grezzo sul palco di Curtis Knight and the Squires. Sempre senza soldi, ma in una lettera dell’agosto ’65 a casa (la lista dei saluti include sempre tutto il parentame) mostra la consapevolezza che suonando così, dalla seconda fila, non si farà mai un nome ma intanto sta imparando le regole del music business, e quelle del pubblico. «Ero solo un’ombra, là dietro. Volevo la scena per me, fare la mia musica. Cominciavo a capire che con una chitarra elettrica si potesse creare un mondo nuovo». Sa che per fare il salto deve incidere un suo disco, ma come si fa?

Nell’inverno del ’66 ha ormai preso residenza fissa in zona Greenwich Village, dove anni prima ha già incrociato Bob Dylan, «non potrei mai scrivere le parole che usa lui, ma mi ha ispirato a scrivere le mie», e dove incontra Randy California, per look e talento una sorta di alter ego (Randy formerà poi gli Spirit), col quale forma Jimmy James and the Blue Flames. Ma ormai l’attesa è finita, e la sliding door si sta per aprire.

Nel maggio del ’66, la fidanzata di Keith Richards capita nel locale dove suona, diventano amici, Keith lo raccomanda al loro manager Andrew Loog Oldham, troppo sul beat per capirlo. Allora Keith lo raccomanda a Chas Chandler, bassista degli Animals, che sta pensando di lasciare il palco per trovare un ruolo dietro come produttore e manager. Chas si connette, pensa che quel pezzo che canta, “Hey Joe”, potrebbe funzionare e gli chiede se voglia seguirlo a Londra: Jimmy pensa massì, che c’ho da perdere, sono anni che vado in giro, proviamo anche Londra.

E si torna a quel 23 settembre in cui stanno per scrivere la storia, anche se nessuno dei due ne ha ancora la minima idea. «Non ne potevo più della scena americana, di lavorare come sideman a tre dollari a notte. Il mio paese non si stava aprendo come l’Inghilterra, e io ho girato talmente tanto che non sentivo di avere radici qui. Per di più, pensavo che avrei potuto suonare a un volume più alto lì, e che la gente se la menava di meno. Sono contento che Chas mi abbia salvato».

È l’archetipo dello straniero che arriva in una terra straniera. Vanno a vivere insieme in un appartamento abitato prima da Ringo, feste fino a tardi, casino, reclami dei vicini. Dopo averlo ribattezzato Jimi, Chandler il primo ottobre lo porta al Politecnico di Londra a un concerto dei Cream, in quel momento la grande promessa del blues-rock inglese, con Clapton che gli sembra suoni proprio come Albert King, e con Ginger Baker “braccia da polipo“.

A Eric chiede se può suonare un paio di pezzi con loro, e a metà concerto sale e suona una versione frenetica di “Killing Floor”: «Ha suonato praticamente in qualsiasi stile tu possa pensare, ma non in maniera flashosa. Voglio dire, ha fatto un po’ dei suoi trucchi, come suonare coi denti e dietro la schiena, but not to upstage us, ma non per fare più bella figura di noi…E poi è sceso. E la mia vita non è stata più la stessa».

Chandler lo aiuta a crearsi un gruppo suo, un trio, che non abbia un organo «perché ce l’hanno tutti», e senza un secondo chitarrista «a cui spiegare tutto il da farsi», tanto ci penserà da solo. Noel Redding era venuto a fare un provino per i New Animals come chitarrista, e così avrà il ruolo di basso-solista, funzionale al suo suono. Mitch Mitchell viene dalla band di r’n’b di Georgie Fame, è uno dei venti provinati alla batteria, fanatico del jazzista Elvin Jones «ed effettivamente quando sento un suo disco penso sia Mitch».

La frenesia, ma anche il gusto, di Mitchell sarà fondamentale per il successo della Experience, gli tiene botta su qualsiasi passaggio o improvvisazione, un vero alter ego in termini di tecnica e inventiva.

Il trio è il formato ideale per improvvisare, aldilà del blues, che gli piace ma non è quello che vuol suonare tutta la notte. «Non voglio essere messo in nessuna categoria: la mia musica non è pop, è ME. Cerchiamo di creare il nostro suono personale. È una cosa primitiva. È per quello che mi piace ci chiamino The Experience. Ci sta bene addosso».

I primi mesi sono eccitanti: tour all’Olympia di Parigi, in Svezia «con le ragazze ci puoi parlare e poi, sì, sono molto carine», il patronage di Paul McCartney, il suo primo fan, un contratto discografico con Kit Lambert e Chris Stamp, manager degli Who per la loro etichetta Track Records, e quella canzone da cowboy da incidere -esattamente un mese dopo esser sbarcato in Europa – con arrangiamento blues: non veloce come la fanno già in tanti, tipo i Byrds, ma lenta, minacciosa:

«Hey Joe, dove stai andando con quella pistola in mano?
Sto andando a sparare alla mia donna,
L’ho vista andarsene in giro con un altro uomo…».

Il resto avviene tutto molto velocemente. A metà novembre quando suona al Bag O’Nails di fronte alla crema del rock inglese (Beatles, Stones, Jeff Beck, Pete Townshend) i presenti non credono ai loro occhi, possibile che quel suono gigantesco venga solo da tre persone? La prima intervista col Melody Maker porta il titolo “Mr Phenomenon”, e Jimi dice: «Se deve essere chiamata in qualche maniera, mi piacerebbe fosse “free feeling”, una musica che si sta ancora sviluppando, una musica del futuro. Un misto di rock, freak-out, rave e blues».

Arrivano a ruota altri due singoli. “Purple Haze” è ispirato sia da un sogno, nel quale cammina sotto il mare, che da un romanzo di fantascienza di Philip José Farmer, “Night of Light: Day of Dreams”, nel quale un raggio della morte che crea un alone viola disorienta e trasforma gli abitanti di un lontano pianeta. Ultimo tocco, un incantesimo voodoo, come quello che una ragazza da giovane gli aveva fatto davvero:

«Una foschia viola nel mio cervello
Ultimamente le cose non sembrano le stesse
Mi comporto in modo strano, ma non so perché
Scusatemi mentre bacio il cielo.
Una foschia viola tutto intorno
Non so se sto andando su o giù
Sono felice o miserabile?
Qualsiasi cosa sia, quella ragazza mi ha fatto un incantesimo…».

Se “Hey Joe” era in fondo una ballata blueseggiante con un magnifico assolo, la foschia viola che avvolge e stordisce chiunque entri nel raggio d’ascolto è un’altra faccenda. 2’50” che deviano la storia. È un delirio sonoro che parte con quel battito insistito ed esplode in un fuoco d’artificio di effetti di chitarra che non si erano mai sentiti prima. Sembrano tre chitarre insieme, in quanti sono? MA CHI SONO ??!, si devono esser chiesti gli inconsapevoli che se lo son sentito arrivare addosso alla radio, o peggio ancora dal vivo.

Perché il primo comandamento della musica di Jimi è “PLAY LOUD!”, a un volume che non si è mai sentito, di fronte al quale coloro che sono abituati a suoni normali tremano, scappano. Quando entra le prime volte in studio, portandosi dietro una batteria di amplificatori Marshall simili a una Grande Muraglia del Suono, i tecnici indietreggiano, si rifugiano in regia, se ne vanno. Non potresti, Jimi, magari abbassare un poco?…NO, perché?

Lo fa per creare un effetto, per fare diventare tutto quanto più fisico possibile, per attraversarti. «Deve fare male», dice. In Olanda in uno studio TV fanno i ganzi, suona alto quanto ti pare Jimi, e dopo un po’…STOP! il soffitto ha cominciato a tremare e cadere giù.

Quattro anni di repressione musicale, lì a suonare tutte le notti il “gotta gotta gotta” gli ha fatto questo effetto?! Gli piacciono i suoni elettrici, il feedback, il suono statico, il riverbero, la distorsione. Hendrix fa di tutto questo, dalla distorsione agli effetti, un’arte. Oltre alle varie pedaliere, è il primo a usare l’Octavia, un apparecchio che raddoppia il suono della chitarra con un tono di un’ottava più alta. Usa la chitarra come una katana, una sciabola da samurai che taglia, stride, si struscia contro gli amplificatori o l’asta del microfono, ci si siede sopra o la suona coi denti, o col gomito. Sono frequenze che stordiscono e stravolgono. È come l’apocalisse che arriva nella forma di un’onda sonora, uno tsunami che spazza via chi non è pronto a reggerla.

Quando sul primo 33 arriverà anche “Foxy Lady”, da quegli accordi picchiati con una cattiveria inaudita nel mondo del rock, molto peggio degli Who per capirci, nasceranno la psichedelìa, l’heavy metal, il rock che non fa prigionieri. Quando manderanno il disco a stampare negli Stati Uniti, ci appiccicheranno un’etichetta: «Distorsione voluta. Non correggere».

Rimarrà una delle sue canzoni simbolo di come in quattro minuti si possa aprire un universo, essere ammiccante e sexy oltre il consentito, animale imprevedibile che gioca, si diverte, cerca la sua preda pronto a offrire l’estasi per due. Guardate questo clip del 1968 (il grandioso concerto di Miami, uno dei migliori) e ditemi se avete mai visto qualcosa di simile:

«Yeah, ti porterò a casa
Non ti farò del male, no
Devi essere tutta mia, all mine
Foxy Lady….
Ecco che arrivo baby,
Comin’ to getcha, arrivo a prenderti».

Però, c’è anche l’altro lato di Jimi, quello del ragazzo timido, taciturno, dolce, che parla quasi sottovoce. Quello cresciuto in mezzo a mille difficoltà di una famiglia fratturata e sparsa per orfanotrofi e adozioni, che nel cuore non si sa come, dopo tutto quello che ha patito e le porte in faccia che si è preso, ha conservato la poesia di un fanciullo che sogna. Il terzo singolo è una ballata a metà fra le immagini di Dylan e il soul degli Impressions di Curtis Mayfield.

La incidono quando hanno solo 20 minuti, in coda alla session di “Fire”, senza neanche il tempo di provarla per intero, buona la prima più qualche sovraincisione, incredibile il gusto e la creatività istantanea e istintiva dei tre insieme. Del resto, questo incidere senza aver testato le canzoni dal vivo, registrandole avendole provate solo poche volte, a volte nessuna, è la caratteristica di tutto l’album. Avrebbe potuto essere più strutturato e arrangiato? Probabilmente sì. Avrebbe potuto essere più fresco e spontaneo, più febbrilmente creativo? Sicuramente no.

“The Wind Cries Mary” è una canzone melanconica, che sa di vento che porta via le lacrime di un amore sfumato via:

«Una scopa sta spazzando via con dolore
I pezzi infranti della vita di ieri
Da qualche parte, una regina sta singhiozzando
Da qualche parte, un Re è senza moglie
E il vento, lui piange, “Mary”…».

Ecco, “Fire”: per me ancora quattordicenne con la mia fonovaligia mono che ‘nglielafà, è amore al primo ascolto. Due note, poi quattro. Mitch che spacca, break con doppio colpo secco e rullatona. Ripeti, non si fosse capito bene. Ok, è arrivato:

«Awright! Now dig this, baby
A te non frega nulla di me
A me non importa
Hai un nuovo sciocco, ha!
Mi piace guardarlo
Ho solo un desiderio che brucia
Fammi stare vicino al tuo fuoco…».

https://www.youtube.com/watch?v=YCfyhgwFqJg

Capisco perfettamente, ora ancora più di allora, come l’arrivo di Hendrix abbia cambiato le regole del gioco. Ha liberato la testa, la tecnica, la maniera di intendere la musica, l’arte, la libertà.

Ottimi chitarristi come “Eric is God” sono rimasti travolti, indietro come un ottimo centometrista che una notte si trova al fianco Usain Bolt, o Marcell Jacobs, e capisce che non ce n’è. Il Jimi persona è di una dolcezza disarmante, onesto e leale. Ma Hendrix, lo sciamano che dà fuoco alla chitarra in un sacrificio simbolico, Hendrix è oltre. Ha davvero dentro di sé la voglia matta di «essere il primo umano che vi fa sentire il blues di Venere». Jimi Hendrix è intergalattico, ha un talento che non è di questo mondo.

Il bello è che non è solo blues, né rock, né psichedelia. È musica allo stato puro. Ascolta cose che molti musicisti di allora neanche sanno che esistano, Bach e Beethoven e Mahler, come gli Spencer Davis di Stevie e i Beatles, e John Lee Hooker e Dylan e Brian Jones. È musica con le radici nel passato, quello del blues innanzitutto, ma anche proiettata in avanti. È il futuro che si manifesta, che arriva all’improvviso.

Quando entra in studio per completare il primo album, c’è tutta la ecletticità di un musicista senza confini: la frenesia elettrica di “Love or Confusion”, “Manic Depression” o “I Don’t Live Today” (magistrale linea di batteria di Mitch), il blues rivisitato della magnifica “Red House” che nel tempo si dilaterà esponenzialmente o quello tirato di “Highway Chile”, quella sorta di beat senza freni di “Stone Free” o “Can You See Me” (molto alla Who), ma anche suoni veramente futuribili.

“May This Be Love” è soul music nel senso letterale del termine: un viaggio interiore, delicato ed evocativo, che esce dal profondo e si affaccia robusto all’esterno, e poi torna indietro, la chitarra raddoppiata che dialoga con se stessa.

C’è “Are You Experienced?”, con un epocale assolo col nastro che scorre al contrario che parte dalle sperimentazioni dei Beatles di “Tomorrow Never Knows” e “Strawberry Fields” per andare in territori inesplorati:

«Se riesci a sistemare la tua mente
E venirmi incontro
Ci terremo per mano e poi
Guarderemo il sole che sorge dal profondo del mare
Ma prima
Hai avuto l’esperienza
Hai mai avuto l’esperienza?
Perché io l’ho avuta…
Trombe e violini, sento in lontananza
Credo stiano chiamando i nostri nomi
Forse ora non riesci a sentirli, ma ci riuscirai
Se solo mi prendi per mano
Ah? Ma hai avuto l’esperienza?
Hai mai avuto l’esperienza?».

E infine, c’è quel gioiello jazzato di “Third Stone From The Sun”. Funky, spaziale, linee melodiche e ritmo che fuggono per tangenti sconosciute, proprio come un’astronave che visita pianeti in cerca di forme di vita, la voce intima e calda di Commander Hendrix che racconta:

«Flotta stellare alla nave scout, date la vostra posizione. Passo
Sono in orbita intorno al terzo pianeta dalla stella chiamata sole. Passo
Intendi la terra? Passo
Positivo. Si pensa ci sia qualche specie intelligente. Passo
Credo dovremmo dare un’occhiata».

È il brano più lungo, quasi sette minuti in un album dove tutti i 17 brani (nella versione americana, che contiene anche i singoli) sono, come i canoni del tempo, fra i tre e i quattro. È un album ancora governato (come sarà il secondo) da una forma canzone compatta, non c’è ancora la voglia di allungare i brani, immergersi nel suono e seguirlo finchè non ti ha condotto da qualche altra parte. Ed è l’album dove più di ogni altro Jimi si esprime come autore, e che autore! Anche se non tutti la penseranno così, per esempio critiche (o incomprensioni) ci saranno: Jon Landau su Rolling Stone scriverà che «nella musica c’è virtuosismo, ma la somma è pura violenza, non artistica, con testi inetti», e che gli piace «solo come chitarrista di blues».

L’album esce il 12 maggio ’67, e sarà uno di capisaldi dell’estate dell’amore, tenuto al secondo posto solo dal fatto che al #1 c’è l’insuperabile capolavoro pop dei Beatles. Ma per far capire il clima di quegli anni e la stima che correva fra lui e McCartney, Paul ha raccontato (anche dal vivo suonando “Foxy Lady”) che “Sgt. Pepper’s” era uscito la notte del 1° giugno, un venerdì. La domenica sera Paul è in sala, al Saville Theatre, e quando si apre il sipario, Hendrix parte con la sua versione del Sergente: «Un complimento di quelli veri. Lo considero uno dei più grandi onori della mia carriera».

Per esser stato registrato non in poche sessioni compatte ma lungo cinque mesi, fino al 4 aprile, intervallato dai tanti tour che tengono impegnato la sensazione dell’anno, “Are You Experienced” è sorprendentemente omogeneo. È inciso anche in molti studi diversi, partendo dai più economici a quelli come i De lane Lea, frequentabili solo a tratti perché situati sopra una banca i cui computer andavano in tilt per le onde sonore provenienti da sotto, fino agli Olympic che Chandler si potrà permettere quando la Polydor, che distribuisce la Track, finalmente gli concederà un budget di registrazione senza limiti.

Quando il disco esce in Inghilterra, Jimi si lamenta di quella copertina buia, con il mantello nero che lo fa sembrare un po’ un Dracula venuto a minacciare i benpensanti, e chiederà al fotografo Karl Ferris di rifotografarlo per l’edizione americana, uno scatto col fish-eye e all’infrarosso, abiti giusti, che farà epoca: «Sei l’unico fotografo», gli dirà, «che sta facendo con la fotografia quello che io sto facendo con la musica, buttando giù le barriere e andando ben oltre i limiti». Un paio di mesi dopo, sarà proprio McCartney, nella direzione artistica del Festival Pop di Monterey, a volerlo lì dove Jimi l’incendiario diventerà leggenda, addetti ai lavori e ragazzi americani a bocca spalancata di fronte a qualcosa di mai visto. Bentornato a casa, Jimi, chi l’avrebbe mai detto sarebbe andata così?

Quello che è davvero stupefacente è la velocità e la potenza dell’impatto sulla scena di questo 23enne che ama vestirsi sgargiante “colori forti a contrasto”, perfettamente inserito nella moda di Carnaby Street -uniformi militari e camice psichedeliche e tutto quanto fa tendenza- che importerà in America alla prima tournèe.

Come un felino liberato dalla gabbia in cui è rimasto troppo tempo, ha una voglia pazzesca di correre in avanti, senza perder tempo: saranno solo 4 anni – anche se in quel momento nessuno può saperlo – nei quali la sua chitarra creerà davvero quel mondo nuovo che sognava.

«La chitarra elettrica», come mi ha scritto una notte Patti Smith sulla sua foto che la imbraccia in cima a un pianoforte, «l’arma, the weapon, della mia generazione».

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