«Quando cominciai a scrivere, la musica si insinuava tra le righe delle poesie: le parole mi venivano in mente sempre accompagnate da una linea di basso. La mia è una poesia semi-melodica con una relazione organica tra parole e ritmo. La poesia è mestiere di parole, è condensazione dell’esperienza». LKJ è un personaggio unico sulla scena inglese a cavallo fra gli anni 70 e gli 80, capace di fondere reggae e poesia militante in uno stile personale e originale chiamato dub poetry. L’origine musicale è nella Jamaica degli anni 70, quando i grandi toaster, dj che rappano su testi scritti o improvvisati, tono da MC un po’ parlato un po’ cantato, catturano la scena dall’alto dei loro giganteschi sound system: le prime star sono U-Roy e Dennis Alcapone, poi arrivano I-Roy, Dillinger e Big Youth. La tradizione torna ancora più indietro, ai griot africani accompagnati dai tamburi, e discenderà fino ai rappers della cultura hip hop, certamente meno rilassati e gioviali rispetto ai loro predecessori jamaicani.
Le basi che usano sono i lati B dei 45 di successo, le cosidette version, strumentali che riprendono il lato A in versione dub, un remix senza voci e con strumenti che entrano ed escono dal missaggio. Oppure fatte apposta dai produttori come King Tubby, che producono piccoli capolavori di dub, una specialità jamaicana che in forme diverse, magari più tecnologiche, influenzerà tanta musica al di fuori dell’isola, persino le musiche elettroniche e digitali di tecno-funk psichedelico, e poi il chill out.
Quello che aggiunge Linton è una vena poetica tutta da sentire ma anche da leggere, con la trasposizione onomatopeica del suono delle parole, così come sono pronunciate in quell’inglese caraibico che chiunque abbia sentito parlare un jamaicano, o un immigrato jamaicano in Inghilterra, conosce bene. È il patois, e la versione di LKJ si tradurrà in una forma letteraria moderna che lo porterà ad altissimi riconoscimenti. Oggi è l’unico di due poeti viventi, e l’unico nero, ad avere una sua raccolta, ‘Mi Revalueshanary Fren’, il mio amico rivoluzionario, pubblicata nella storica e prestigiosa collana dei Penguin Modern Classics. Ellah Allfrey lo definisce «una forma unica di linguaggio inglese. Questa è la lingua inglese che torna a casa, trasformata».
La radice della dub poetry non è solo jamaicana, perché riprende anche lo stile e soprattutto i temi che gruppi come i Last Poets newyorkesi avevano già esplorato una decade prima: gruppi diversi, che si sono anche intrecciati negli anni, di poeti e musicisti di Harlem politicamente espliciti e nati con lo scopo di diffondere la consapevolezza e l’identità della nazione afro-americana.
Se negli Stati Uniti, insieme ad altri artisti come Gil Scott-Heron, hanno tracciato la strada per la nascita della cultura hip hop, in Inghilterra i temi di LKJ sono similari, ma adattati al contesto tatcheriano inglese di quegli anni, gli stessi dell’era del punk: testi pienamente politici, contro il razzismo, contro la brutalità poliziesca, per difendere fisicamente e moralmente gruppi etnici che vengono trattati come paria della società bianca dominatrice. Una storia che ben conosciamo e che sopravvive ancora nel 21° secolo. “Scrivere è un atto politico e la poesia è un’arma culturale”, nelle parole di LKJ.
Linton nasce in una domenica di agosto 1952 (‘kwesi’ è il soprannome ganese di chi è nato di domenica) in una zona rurale jamaicana, allora ancora una colonia inglese. A undici anni si trasferisce con la mamma (nel frattempo separata) a Brixton, sobborgo multietnico di Londra.
È ancora a scuola quando si unisce alle Pantere Nere inglesi, in un momento storico in cui la consapevolezza afro-americana si sta diffondendo in America e nella colonia caraibica, che guadagna l’indipendenza nel 1962. «Nonostante il nostro slogan fosse ‘potere nero, potere alla gente’, non eravamo anti-bianchi. L’idea era quella di una solidarietà da working class, ridare potere alla gente sulla loro vita. Da teenager mi sono appassionato ai concetti di libertà, uguaglianza, giustizia».
Avendo capito presto che «l’educazione era l’unica via d’uscita dalla povertà per uno come me», studia sociologia di sera, lavorando duro di giorno per mantenere una moglie e la figlia avuta molto presto, e non ha ancora vent’anni quando un suo lavoro, ’Voices of the Living and the Dead’, viene rappresentato in teatro.
Lavora come giornalista, scrive bio di artisti reggae per i musicali inglesi e per la Virgin, e pubblica le sue prime poesie su Race Today, giornale della comunità nera. Matura politicamente, preferendo il ‘sowshallism’, il socialismo, e il pan-africanesimo al Rastafarianesimo. Quando incontrerà Marley, Bob gli chiederà meravigliato ‘come ‘è che sei così militante e non sei rasta?’. Ma il suo trademark look rimarrà sempre capelli corti, spesso giacca e cravatta, porkpie hat in testa e pizzetto, ancor oggi che il nero si è fatto sale e pepe. Un intellettuale, non una star.
A metà della decade escono due raccolte, ’Le voci dei Vivi e dei Morti’, appunto, e ‘Dread Beat An’ Blood’, accreditato a Poet and the Roots, che sarà anche il titolo del suo primo album per la Virgin, 1978. È un album di esordio di grande potenza, l’album più militante che puoi trovare in quel periodo sugli scaffali dei negozi di dischi inglesi. È il template per gli album che verranno. L’anno successivo passa alla Island di Chris Blackwell, l’altra casa del reggae in Gran Bretagna, e dà inizio a un quadrittico di album, dal 1979 all’83, che sono pietre miliari per il reggae inglese: “Forces of Victory”, “Bass Culture”, “LKJ IN DUB”, la versione dub dei pezzi più famosi, e “Making History”. Il meglio è raccolto in un doppio “Independant Intavenshan”, una sintesi preziosa, imperdibile se vi piace la musica col battito in levare.
Su quale di questi sia il migliore il dibattito è aperto. Personalmente, trovo il primo (a cui va sempre il merito di aprire uno stile, o un genere) uno di quelli dove tutto quadra perfettamente, un disco difficile da ignorare per la sua concretezza, militanza poetica con una musicalità grandiosa. Molto del merito è la nuova band, o meglio, la Denis Bovell Band, denominata solo Roots nell’album precedente, che nel frattempo è maturata in una reggae band superba, con un chitarrista dei migliori, John Kpiaye, Bovell ormai quello invisibile, non più chitarrista ma produttore, tecnico del suono, mentore straordinario che rimarrà con lui per tutto il viaggio. È un reggae flessibile alle circostanze, tutt’altro che d’accompagnamento, che sa marciare duro quando si stringono i pugni e si gonfia il petto ma anche swingare con un tocco di jazz quando la musica si fa più libera.
La voce di Linton non è immersa nel mix, ma galleggia sopra gli strumenti, ben chiara e forte, scandita in ogni sillaba del suo spelling scrivo-come-parlo. Il tono sobrio, un tocco di ironia in certi passaggi (lo sarà di più negli album seguenti), tutto dannatamente serio ma, come sempre nella musica black, anche liberatorio per il corpo, il reggae non si ferma mai. LKJ non usa mai toni sopra le righe, non urla e non ulula, il suo messaggio sta nella forza e nel ritmo delle parole integrate al ritmo e al suono della musica, il tono di voce lasciato neutro, il che funziona in contrapposizione alla potenza, anche alla violenza, delle parole usate. È suadente, come in una conversazione, ha qualcosa di ipnotico, come un mantra.
La title track è una sorta di inno di battaglia che celebra la ritrovata potenza e unità del suo popolo, la forza della cultura, simboleggiata dal ‘dottore’, contrapposta a quella delle armi:
«Le forze della vittoria, e stiamo penetrando
Le forze della vittoria, sai quello che devi fare.
Arrivano col loro esercito, non siate molli
Arrivano con le loro spade, e ti faranno impazzire
Vengono con i loro corpi e fanno le loro ronde
Vengono coi blindati e Babylon sarà bombardata.
Quando chiami un medico, terranno le posizioni
Quando chiami un medico non avranno più munizioni
Quando chiami un medico non troveranno più un posto dove stare
Siamo le forze della vittoria e stiamo arrivando
Le forze della vittoria, e sapete quello che dovete fare».
‘Poem of Reality’ ha un taglio più filosofico, una sorta di ammonizione – molto simile a certi passaggi di Marley, valga per tutti ‘Redemption Song’- in cui la realtà viene contrapposta alle illusioni e alle apparenze:
«Questa è l’era della realtà
Ma alcuni di noi vivono di mitologia
Questa è l’era della scienza e della tecnologia
Ma alcuni di noi vivono di antichità
Quando non possiamo affrontare la realtà
Lo mostriamo con chiarezza
Alcuni vivono di vanità
Alcuni si aggrappano alla follìa
Alcuni hanno visioni
Iniziano a predicare
Ma non possono prendere decisioni
Quando si tratta delle nostre lotte
Dei nostri diritti
Poi quando escono dalle file
Non vivono più nel loro tempo
Dicono di avere presagi
E diventano ciechi alla luce del mondo
E cercano dentro sé stessi
Nell’oscurità del destino
E gridano al peccato
Invece di combattere per vincere
Questa è l’era della decisione
Lascia perdere la religione
Questa è l’era delle decisioni
Lascia perdere le suddivisioni
Questa è l’era della realtà
Perciò lascia stare la mitologia
Questa è l’era della scienza e della tecnologia
Perciò mantieni la chiarezza
Mantieni la chiarezza»
In molte canzoni ci sono citazioni più o meno esplicite di episodi di violenza di cui i neri inglesi sono stati vittime. Non sono solo canzoni di consapevolezza, sono anche incitamenti alla resistenza, anche al confronto, se serve. Hanno un taglio culturale, a volte simbolico, non sono platealmente insurrezionali come saranno dieci anni dopo i NWA, o i Public Enemy, ma non arretrano di un passo. È il colonialismo che torna indietro insieme al patois, sono le conseguenze di dominazioni coloniali – e gli inglesi ne sanno qualcosa, dalle Indie Occidentali al subcontinente Indiano – senza volerne pagarne il prezzo, l’accettazione, l’integrazione.
‘Fite Dem Back’, ricambiate la lotta, forse la più violenta, è in risposta al famigerato discorso “rivers of blood” di Enoch Powell, membro del partito conservatore, che nel 1968 in una riunione di partito si scaglia contro l’immigrazione dai paesi del Commonwealth e dalle ex-colonie citando l’Eneide di Virgilio: “se guardo avanti, ho la premonizione: come un romano, vedo il fiume Tevere schiumare di sangue”. Discorso che scava un solco profondo e discusso, che rifornisce di carburante ideologico il National Front, partito di estrema destra, e dà il via a un sentimento sovranista, diremmo oggi, che inciderà assai sulla politica interna inglese della decade successiva. La stessa Margaret Tatcher lo asseconderà, quando nelle elezioni che la porteranno a primo Ministro nel ’79, batterà il tasto “sull’essere invasi da persone di una cultura diversa”. Cicli e ricicli storici, come vedete, certe cose non cambiano mai. LKJ lo chiama per quello che è, fascismo:
«Qualcuno dice odia il negro
E qualcun’altro dice picchia il negro
Qualcuno dice pugnala il negro
E altri dicono colpiscilo
Fascisti all’attacco
Non ci dobbiamo preoccupare
Fascisti all’attacco
Ricambieremo la lotta
Fascisti all’attacco
Contrattaccheremo
Fascisti all’attacco
Li rimanderemo indietro
Gli sfasceremo la testa
Perché non c’hanno niente dentro
Gli sfasceremo la testa
Perché non c’hanno nulla dentro»
Il momento più toccante di tutto l’album è ‘Sonny’s Lettah’, la lettera che un fratello maggiore scrive alla madre rimasta aldilà dell’oceano. Cita la Legge SUS, da ‘sospettato’, datata 1824 (!), che consentiva in quegli anni alle forze di polizia di arrestare e detenere chiunque fosse sospettato di qualcosa, cosa che avveniva spesso per motivi razziali. Ha una visualità e una emotività da brividi. Comincia con l’intestazione della prigione a Brixton da cui Sonny scrive:
«Dalla prigione di Brixton, Jebb Avenue, London S.W.2, Inghilterra:
Cara mamma,
buona giornata
Spero che quando queste poche righe ti arriveranno
Ti troveranno in buona salute
Mamma,
Non so veramente come dirtelo,
Perché avevo fatto una solenne promessa
Di badare al piccolo Jim
E di fare del mio meglio per proteggerlo
Mamma, ho veramente fatto del mio meglio
Ma nonostante tutto,
Mi spiace dirti che il piccolo Jim è stato arrestato.
Era nel mezzo dell’ora di punta,
quando tutti spingono e si affrettano
Per andare a casa e farsi una doccia,
Io e Jim siamo lì in piedi
Aspettando l’autobus senza far casino
Quando improvvisamente si ferma un furgone della polizia.
Scendono tre poliziotti
Tutti col manganello
Vengono direttamente verso me e Jim
Uno di loro afferra Jim
e dice che lo porta dentro
Jim gli dice di lasciarlo
Perché non ha fatto nulla
Lui non è un ladro, e tantomeno un rissoso
Jim inizia a dimenarsi
La polizia comincia a ridacchiare»
Quello che finora è la descrizione di un tranquillo pomeriggio andato nella direzione sbagliata improvvisamente prende un’altra piega. Sonny, prima di raccontare, è come se chiedesse il permesso alla mamma di raccontarle i dettagli di com’è andata. E chiede:
«Mamma, posso dirti cos’hanno fatto a Jim?
Mamma, posso dirti cosa gli hanno fatto?”
Cambia il ritmo, il patois diventa infuocato, qualcuno ha scritto su toni Quentin Tarantineschi, una panna che monta, un incidente che diventa un dramma che diventa una tragedia:
«L’hanno colpito in pancia diventata gelatina
L’hanno picchiato sulla schiena e gli hanno fracassato le costole
L’hanno colpito alla testa ma è dura come il piombo
L’hanno preso a calci in faccia ed ha iniziato a sanguinare.
Mamma, non potevo stare lì senza fare nulla
Ne ho colpito uno in un occhio e si è messo a piangere
Ne ho colpito uno in bocca e si è messo a gridare
Ne ho preso uno a calci negli stinchi e ha cominciato a trottolare
L’ho colpito al mento ed è caduto in un bidone
Crollato, morto.
Altri poliziotti sono arrivati
Mi hanno massacrato di botte
E imprigionato Jim per la legge SUS
E mi hanno incolpato di omicidio».
Il film è finito, il seme della violenza è diventato un albero che ha distrutto una famiglia, anzi due, a Sonny non rimane che farsi forza facendo forza alla anziana madre, che leggerà la lettera chissà quanti giorni dopo, in un qualche patio di un villaggio jamaicano, mentre scende una lacrima e sale l’impotenza di fronte al destino:
«Mamma, non ti preoccupare
Non ti deprimere e disperare
Abbi coraggio
Finchè non avrò tue notizie
Rimango
Tuo figlio
Sonny»
Maya Jaggi, in un lungo, documentato, bellissimo articolo scritto sul Guardian quando LKJ viene inserito, in mezzo a molte polemiche, nella collana della Penguin ha scritto: «È stato il primo a dare voce alla seconda generazione di neri britannici, gli immigranti del dopoguerra dalle Indie Occidentali. Secondo lo scrittore Caryl Phillips, non c’era nessuno che articolasse quello che stava succedendo nelle strade britanniche per i giovani neri. È stata la prima voce di crossover, che ha reso possibile per una generazione di considerarsi neri creativi nella letteratura, nella musica, nei media».
Dennis Lovell, il suo braccio destro in levare, dice: «A scuola ti facevano vergognare del tuo linguaggio. Ma quando sentivi LKJ diventavi conscio del suo potere, che era qualcosa di cui essere orgogliosi, allo stesso livello dell’inglese standard» E Linton aggiunge: «non esiste un inglese cattivo: c’è l’inglese e ci sono modi di parlarlo. Molti poeti delle origini, ad esempio Chaucer o Burns, scrivevano in dialetti locali». Per Phillips, «LKJ ha consentito a una generazione di scrittori di sentirsi liberi di usare il patois, la lingua della propria nazione, fosse da un gruppo etnico o da un retroterra regionale».
Capite quanto questi dischi siamo stati importanti sotto il profilo culturale e identitario per ormai più di una generazione. Quanto siano stati influenti su tutto il rap sociale e politico venuto dopo, anche negli Stati Uniti, Sud Africa, in altri angoli del mondo lontani. E quanto, ancora oggi che LKJ ha continuato – con parsimonia – la sua carriera di dub poet, in mezzo a molti altri riconoscimenti, siano fantastici da ascoltare. Perché il reggae – sicuro come il sole che sorgerà domattina – non tradisce mai.
PS Ringrazio Gianni Galli, riferimento per le traduzioni.