Pandemia di scrittoriLa letteratura sul coronavirus è stata il grande romanzo globale

Nei mesi peggiori della crisi sono fioccati i diari, le analisi, i racconti. Un fenomeno che ha riguardato tutto il mondo. Come ricorda Giulio Ferroni, sono stati riesumati anche testi classici, dal Manzoni fino a Camus, come (inefficace) modello di confronto

di Kelly Sikkema, da Unsplash

Nel ripercorrere la parte finale del mio manuale di storia letteraria, mi capitava di pensare che, dato il rilievo storico di ciò che stavamo vivendo, si sarebbe potuto trattare in un capitolo o paragrafo conclusivo, senza aspettare troppo tempo, anche la letteratura del Coronavirus che si veniva formando: e del resto nel mondo accademico e in quello giornalistico si tende spesso a fare storia delle cose più vicine, a storicizzare il presente, tanto più velocemente e insistentemente quanto più si perde il senso della distanza storica, quanto più tutto si ribalta, si incasella e si cancella, nella evanescente coesistenza della comunicazione.

In effetti una letteratura del Coronavirus si è subito automaticamente definita e assestata alle prime avvisaglie del disastro, con molteplici segni di allarme, disagio, difesa, speranza, negazione: ha preso avvio dai media, nell’immediata proliferazione di voci, di parole e di scritti, tra l’universo televisivo e quello della rete e della stampa periodica.

Il fenomeno è stato subito internazionale: in un pullulare di interventi pubblici e privati, di diari, riflessioni, autoriflessioni, scritture in rete o su carta, sia da parte di voci sconosciute o poco note, che di autori già abitualmente presenti nel mondo dei media. Molto presto si è arrivati ai libri: libri espresso, confezionati “in tempo reale”, anticipati nei giornali e talvolta a essi direttamente allegati. Filosofi, scienziati, giornalisti, romanzieri: vasto il campionario degli autori, perlopiù ben noti, già ben collaudati nella loro presenza pubblica, con l’aggiunta dello stuolo di virologi e infettivologi, anche se molti di essi si sono limitati ad esprimersi in interviste e apparizioni televisive.

Già nella primavera 2020 si sono moltiplicate le scritture diaristiche. Qualcuno ha cominciato a raccoglierle o anche a sollecitarle, mettendo su dei veri e propri archivi della quarantena. Come al solito i paesi anglosassoni sono stati subito in primo piano: la rete tv americana nbc ha raccolto un archivio di confessioni anonime, mentre in Inghilterra l’ente di ricerca Mass Observation ha invitato il cittadini a inviare i loro racconti sull’esperienza in corso, ecc.

Da noi non sono mancate simili iniziative: archivi e sollecitazioni di scritture, raccolte di interventi di diversa origine, che hanno piegato la dominante infodemia a toccare situazioni della vita privata, effetti e reazioni individuali all’isolamento, sensazioni suscitate dallo choc della mutazione, speranze e ansie per il futuro.

L’hanno fatto anche scrittori di primo piano, registrando le forme del proprio tempo di vita in quei mesi più chiusi, su diversi periodici, tra cui La Lettura del Corriere della sera, dove è apparso un diario “a staffetta” di otto scrittori, uno per settimana, inaugurato a fine marzo da Sandro Veronesi (in un numero fitto di interventi sul tema Covid-19). E procedendo nel corso dell’anno, commenti e diari, previsioni della e sulla pandemia, hanno continuato a moltiplicarsi: se ne trovano di interessanti nei siti e nei blog letterari, da Nazione indiana ad Altraparola. Poi nelle feste di fine anno, nelle strane festività del calante 2020, gli interventi si sono intrecciati e identificati con i tradizionali consuntivi sull’anno trascorso, eccezionale questo quanti altri mai.

Sul corpo alterato dell’antropocene, sul tempo che scorre sui suoi territori slabbrati e interconnessi, si sono tracciate e si tracciano le scorie illimitate di quel “romanzo globale” che per la sua stessa composizione non può essere che virtuale: la sua struttura non potrà che essere disintegrata, romanzo senza romanzo, romanzo di tutto e di nulla, di tutti e di nessuno, leggibile solo per casuali microframmenti.

Si sono presto affacciati anche studi su questo materiale, ricerche accademiche, tesi di laurea, calcoli statistici, misurazioni antropometriche: e possiamo essere sicuri che, oltre ai tanti libri del e sul Coronavirus, saranno pubblicati metalibri, cioè libri sulla letteratura del Coronavirus, sia se per letteratura si intenda tutto l’insieme delle voci e delle scritture, sia se invece la si voglia considerare stricto sensu, come letteratura degli scrittori (pur con tutta la difficoltà e l’improbabilità di distinguerla dal resto).

Ritorno ai classici della peste

Pur lasciando da parte ogni distinzione tra letteratura in genere e letteratura stricto sensu, occorre comunque avvertire che, specialmente nella prima fase della clausura, è stata proprio la letteratura del passato, quella che viene da lontano, a fornire occasioni di riconoscimento, inquadramento, interpretazione di ciò che stava avvenendo: sono subito spuntati, quasi automaticamente, molti riferimenti alle grandi rappresentazioni letterarie della peste.

In Italia anche chi ne aveva solo pallida memoria scolastica si è trovato subito a riferirsi a due pesi massimi della nostra storia letteraria, le pagine sulla peste del 1348 dell’Introduzione al “Decameron” e quelle sulla peste del 1630 dei “Promessi sposi”. Boccaccio e Manzoni sono entrati così nella letteratura del Coronavirus, evocati moltissimo nella primavera, anche se poi la ripetitività e la banalità dei richiami ha finito per fare evaporare il loro ricordo. Non sono comunque mancate riproposte editoriali e studi suscitati dall’improvvisa attualità dei due dormienti capolavori.

Chi voleva andare oltre questi più disinvolti e così casarecci ricordi scolastici aveva modo di chiamare in causa altre grandi rappresentazioni della peste, dalla peste di Atene di Tucidide e poi di Lucrezio, a quella di Londra di Daniel Defoe, fino a quella immaginaria ma per tante ragioni più prossima del romanzo di Albert Camus, che ha “La peste” proprio nel titolo e che è stato alla fine il più citato e considerato, anche più del “Decameron” e dei “Promessi sposi”. Intanto i più eruditi e documentati hanno potuto aggiungere altri riferimenti a testi lontani o anche molto vicini nel tempo, con pubblicazioni storiche su pesti, pestilenze, epidemie, pandemie, infezioni, contagi, flagelli, morbi, contaminazioni, propagazioni, maligne circolazioni.

Tutti questi richiami alla storia passata ci hanno ricordato la fragilità e precarietà che ha sempre caratterizzato la vita collettiva e che la modernità, con i suoi supporti medici e tecnologici, con le sicurezze garantite dai suoi molteplici gadget, ci aveva illuso di aver definitivamente cancellato.

Certo siamo stati ben lontani dall’orrore fisiologico dell’antica peste, dalla brutale materialità del suo fisico esporsi: protetti più possibile, con i nostri mezzi di difesa, mascherine, disinfettanti, distanziamento sociale, non abbiamo visto lazzaretti e piaghe purulente, ma abbiamo nascosto (esposto in televisione) la sofferenza dei corpi entro i macchinari dei reparti di rianimazione, sotto camici, protesi, filamenti, intubazioni. Quelli che sono morti così, intubati e soli, non sono stati gettati sui carri dei monatti: ma in alcune situazioni i corpi, senza un saluto, chiusi nelle bare, sono stati caricati su carri militari.

Il necessario distanziamento e la sospensione di tante occorrenze della vita sociale, tra paura, autodifesa, sospetto, hanno d’altra parte dato spazio all’ansia della fine: fine di modi di vita che consideravamo normali, di tante abitudini che in fondo nemmeno i più impietosi critici del presente avevano mai messo davvero in discussione.

Erano, in un modo o nell’altro, varianti di quel precipitare della storia di cui ho già detto precedentemente: precipitare percepito anche da chi alla storia si mostrava indifferente e si concentrava tutto sul disagio del presente, sui problemi creati dalla situazione e nelle prospettive, reali o immaginarie, meditate o illusorie, per uscirne. Un senso di urgenza ha agito sia nell’ingannevole diffusissimo slogan “Andrà tutto bene”, sia nel simulacro di solidarietà manifestato dal canto dell’inno nazionale ai balconi e alle finestre, sia nella recisa constatazione che “nulla sarà più come prima”, sia nella indifferente aspirazione a tornare senza indugi alla vita di prima.

La voglia di riafferrare tutto ha poi dominato la vorticosa estate, in quelle prove di ostinata irresponsabilità che ci hanno poi condotti alla cosiddetta seconda ondata. Poi è prevalsa la confusione, l’assurdità del gioco politico, l’avanzata delle richieste corporative, fino alla formazione di un nuovo governo diventato probabilmente “salvifico”, grazie alla diffusione dei vaccini.

da “Una scuola per il futuro”, di Giulio Ferroni, La Nave di Teseo, 2021, pagine 160, euro 13, in libreria dal 2 settembre

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