Ho stilato una classifica degli incipit di conversazione più spaventosi di sempre: «Sto scrivendo il mio primo romanzo», «adesso vorrei parlarti di un museo», «e adesso siediti su quella seggiola», «devo andare in maternità». È facile parlare di maternità, perché basta essere mamme, e vorrei ben vedere visto che partoriamo gratis e qualcuno dovrà pur pagarla cara.
Non bisogna studiare, non ci sono titoli, accademie, case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale, siamo noi, siamo in tante, però adesso sta succedendo che persone non mamme vogliono toglierci la possibilità di monetizzare sulla pelle dei nostri figli minorenni.
Vi vedo. Editoriali. Pamphlet. Commenti. Proposte di legge. Qualche anno fa le conversazioni giravano tutte intorno a «tu non sei madre, non puoi capire». Adesso non lo dice più nessuno, a nessuno.
Il problema non è che «se non sei un corvo non puoi scrivere un libro sui corvi», il problema è che non vedo De Beauvoir a dirmelo (esclusa la persona che cito citando la citazione).
In questi anni tremendi, la battaglia identitaria è diventata l’abbeveratoio della discussione civile, e tutti a dire: se non hai sofferto di disturbi alimentari non puoi capire, come ti permetti! Se non sei stata vittima di discriminazione non puoi capire, come ti permetti! Se non hai un cane non puoi capire, come ti permetti! E niente, per carità, non mi permetto; ho poco tempo libero e quindi non mi permetto, ho da lavorare, stirare, cucinare, pensare alle guerre, sono una madre, non potete capire.
Come ti permetti di dire che non posso capire non essendo madre? E siamo arrivati qui, al paradosso dei corvi: tutti i corvi sono neri, se una cosa non è nera non è un corvo, ma esistono anche cose nere che non sono corvi. Ho letto che la maternità è un sentimento che possono provare tutti. Spiace ma no, non credo.
Prendiamo il famoso post della sindaca di Torino Chiara Appendino sulla maternità, che è stato un grande catalizzatore di riflessioni. No, non si dovrebbe scegliere tra lavoro e maternità. «Vorrei un mondo dove ogni donna possa vivere l’esperienza della maternità serenamente»: diciamo che serenità è l’ultima parola con cui rimerei maternità.
Appendino dice che bisogna normalizzare la maternità, e sento nella mia mente Clarke Gable che mi ricorda che anche le gatte partoriscono e che sono madri migliori di noi. Fino a ora non ho ancora letto che il grande ricatto esiste, e non è certo chiedere a un colloquio se vuoi avere o meno dei figli: è quel momento Faust che ogni donna vive dopo il parto: sembra un buon affare, la mia anima ha un costo, e quel costo si chiama Naspi.
Entro il compimento del primo anno del bambino ti puoi licenziare e prendere la disoccupazione, ed è proprio alla Naspi che hanno pensato i fratelli Grimm quando hanno teorizzato la maledizione nella culla. La povera Rosaspina prima vittima dell’Inps, amen.
Alcune persone di buon senso si fanno due conti: asilo nido, tate o vita rovinata dai ricatti dei nonni, part time non concessi o con stipendi dimezzati, e dicono beh, è un buon affare signor Mefistofele, prenda pure la mia anima e mi dica dove devo firmare per le dimissioni, che poi è piccolo questo bambino, e poi come faccio, non ce la faccio, lo devo allattare, che altrimenti arriva la Leche League e mi sfonda la porta a calci. Perché hai voglia a parlare di equiparazione del congedo di paternità con quello di maternità – che poi non ho capito chi va a lavorare, ma, trigger warning: non sono un’economista, sarà certamente una proposta di buon senso – penso solo a mesi chiusi in una casa di 50 metri quadri con un neonato e pavimenti in gres porcellanato.
Io non credo che equiparando i problemi si equipari la condizione. Ma forse stare tutti un po’ peggio è la vera parità.