I Talebani avanzano ogni giorno che passa verso Kabul e controllano sempre più territorio afgano, sì che si delinea sempre più un esito disastroso dei venti anni di intervento militare degli Stati Uniti, della Nato e dell’Italia, mentre la Russia e il Tagikistan ammassano truppe alla frontiera per arginare sconfinamenti.
Ma, ancora e incredibilmente, gli Stati Uniti per primi e poi i loro alleati non prendono atto di una verità scomoda: il segreto primo del successo dei Talebani è nell’appoggio totale che dal 2001 hanno ricevuto dal Pakistan. Né George W. Bush, né Barack Obama, né Donald Trump e men che meno oggi Joe Biden hanno saputo prendere atto di questo legame fortissimo e ora il governo di Kabul ne paga le conseguenze.
Giorni fa durante una conferenza a Tashkent il presidente afgano Ashraf Gani ha sollevato il tema scabroso e ha rivolto accuse precise al premier del Pakistan Imran Khan: «Lo scorso mese avete lasciato entrare in Afghanistan più di mille combattenti jihadisti e per di più – tradendo i vostri impegni – non avete affatto convinto i Talebani a partecipare con serietà ai colloqui di Doha». Accuse rigettate da Imran Khan, ma con scarsa credibilità. Le Monde cita sul punto un alto dirigente dei Servizi dell’India che è esplicito: «Da venti anni i Talebani godono del sostegno totale della Forze Armate del Pakistan e sono aiutati sul terreno dai jihadisti di due organizzazioni terroriste del Pakistan».
La ragione del sostegno esplicito e determinante del Pakistan ai Talebani, elemento decisivo del fallimento dell’intervento occidentale, è semplice: la dottrina strategica pluridecennale dei vertici militari di Islamabad considera l’Afghanistan «retroterra strategico indispensabile» della prossima, inevitabile ed ennesima guerra (la quinta) con l’India. Per fare un esempio, il premier pakistano Parwez Musharraf nei primi anni duemila, impiegò i due miliardi di dollari che annualmente gli versavano gli Stati Uniti di George W. Bush, non per contrastare i Talebani come chiedevano gli americani, ma per rinnovare e ampliare la flotta militare in funzione anti-indiana.
Nei fatti, questo errore strategico degli Stati Uniti e dell’occidente, che oggi si conclude col trionfo dei Talebani, ha una radice geopolitica chiara: il Pakistan, da settant’anni anni, è valutato giustamente come un presidio militare e politico indispensabile dell’ccidente in funzione anti-cinese ( e a suo tempo anti-sovietica). Presidio reso ancora più prezioso dall’invasione sovietica dell’Afghanistan del 1979, preceduta di pochi mesi dalla caduta nelle mani dell’ayatollah Khomeini del perno della presenza politico militare americana in Asia, costituito dal regime iraniano dello sciá Reza Pahlevi.
Il ruolo insostituibile del Pakistan in Asia per gli Stati Uniti ha visto così da quaranta e più anni tutte le amministrazioni americane ingessate in un sostegno acritico di tutti i regimi che si sono susseguiti a Islamabad, incluso quello di Zia ul Haq (1977-1988) che ha introdotto una riforma islamista dello Stato e ha intronato vertici militari con una ideologia assolutamente consonante con quella dei Talebani. Non va dimenticato che non è un caso che Osama bin Laden abbia trovato un comodo e sicuro rifugio a poche centinaia di metri dalla Accademia militare pakistana ad Abottabad, dove fu ucciso dai Navy Seals, provocando roventi proteste pakistane.
Pure, non era e non è affatto impossibile ipotizzare una strategia americana e occidentale che affiancasse al sostegno strategico, militare ed economico del Pakistan pressioni forti e determinanti per far cessare il sostegno indispensabile ai Talebani. Ma così non è stato.
In conclusione, la fine ingloriosa dell’intervento militare americano e occidentale in Afghanistan e l’imminente trionfo dei Talebani sono il prodotto ineluttabile di una disastrosa mancanza di duttilità strategica americana nei confronti di un Pakistan che oggi non è affatto dispiaciuto di questo esito.