Mezzo secolo di polimeriA 50 anni dal primo studio dell’inquinamento da plastica, cosa è cambiato?

Greta Thunberg ha ribadito che servono azioni, non chiacchiere. La storia della “plastic pollution” lo dimostra: nel settembre del 1971 venne realizzata la prima ricerca che ne dimostrò l’esistenza, ma il problema viene affrontato soltanto da pochi anni

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Greta Thunberg ha ribadito in questi giorni a Milano, dove i giovani di tutto il mondo si sono dati appuntamento per l’importante evento Youth4Climate, che il mondo attende azioni, reali ed efficaci. Non chiacchiere e promesse: non «bla bla bla», per citarla. Ovviamente sono emerse subito reazioni stizzite. Ma questa è esattamente la realtà: le azioni sono necessarie e urgenti; gli obiettivi sono chiari da anni e ribaditi costantemente dal mondo scientifico; la politica agisce poco e inseguendo ricette fasulle o molto parziali.

Ci sono molti esempi, ma uno in particolare propone una fotografia chiarissima del problema, sottolineato ancora una volta dall’attivista svedese e dagli altri giovanissimi impegnati in ogni angolo del pianeta.

Ricorrono in questi giorni i 50 anni da quando, nel settembre 1971, la scienza ha iniziato a occuparsi dell’inquinamento da plastica in mare. Cinquant’anni sono un periodo breve per le dinamiche planetarie, ma sufficientemente lungo per osservare alcune conseguenze delle attività umane, e per consentire a noi di guardare in prospettiva con tempistiche umanamente comprensibili.

La breve storia dell’inquinamento da plastica è paradigmatica di come le nostre società restino inerti di fronte ai dati di fatto, fino a quando non diventano emergenza assoluta (e anche un po’ oltre, a volte), con il rischio che alcune conseguenze diventino irreversibili e di compromettere il futuro. La storia dell’inquinamento da plastica ci serve a comprendere come l’ideologia e gli interessi di pochi vadano a scapito del bene e dell’interesse comune (e, per assurdo, ad essere accusati di agire in base all’ideologia finiscono invece per essere coloro che denunciano, dati alla mano, quanto sta accadendo).

Sulla plastica, la scienza è rimasta totalmente inascoltata per almeno 35 anni. Per quello che riguarda il cambiamento climatico, invece, basta pensare che la prima ricerca che certificò un incremento di temperatura nei 50 anni precedenti e a collegarlo alle attività umane uscì nel 1938 (“The artificial production of carbon dioxide and its influence on temperature”, di Guy Stewart Callendar) eppure ancora oggi dobbiamo sorbirci dibattiti – totalmente privi di una logica o base scientifica – sul tema, o proposte tese soltanto a prendere tempo e conservare lo status quo con strategie del tutto irrilevanti, mentre il mondo cambia mettendo a rischio noi stessi, i nostri figli, nipoti e pronipoti.

Ma torniamo alla plastica. Furono Edward J. Carpenter e Kenneth L. Smith Jr. a occuparsi per primi dell’inquinamento da plastica in mare. I due erano ricercatori del Woods Hole Oceanographic Institution, una delle più importanti organizzazioni dedicate alla ricerca sul mare e alla sua relazione inestricabile con il “sistema Terra”. Carpenter e Smith erano andati in mare con tutt’altri obiettivi. Tra il 27 settembre e il 18 ottobre 1971, i due effettuarono 11 prelievi nel mar dei Sargassi: stavano compiendo studi sulle comunità di organismi legate al sargasso, un’alga molto preziosa per il ricchissimo ecosistema favorito dalle “foreste” che essa forma a pelo d’acqua sulla superficie oceanica.

Il mar dei Sargassi è l’area di oceano Atlantico che possiamo localizzare tra le Azzorre e le Antille, tra i 70 e 40 gradi di longitudine Ovest e 20 e 35 gradi di latitudine Nord. In quella vasta area si forma un sistema di correnti oceaniche circolanti in senso orario, il cosiddetto vortice del Nord Atlantico (North Atlantic Gyre). All’interno di quest’area l’acqua ha un colore blu profondo con una visibilità eccezionale, che supera abbondantemente i 50 metri e spesso vi è bonaccia, cioè assenza assoluta di vento.

Tutti questi dettagli ci aiutano a comprendere le ragioni fisiche – il vortice creato dalle correnti tende a concentrare al centro la materia galleggiante – di quello che scoprirono i due scienziati, che utilizzavano per i campionamenti una rete a maglia fittissima (0,3 millimetri). Ancora oggi è quello lo strumento principale per campionare microplastiche in acqua. Carpenter e Smith notarono che, dentro la rete, restavano imprigionati numerosi frammenti di plastica: invece della vita che stavano cercando, trovavano detriti. La corrente marina li portava in quell’area dalla terraferma e il vortice li concentrava nel mar dei Sargassi.

Raccontarono quella sconcertante scoperta nell’articolo “Plastic on the Sargasso Sea surface”, pubblicato su Science qualche mese dopo, il 17 marzo 1972: «Mentre campionavamo la comunità pelagica (…) nel mar dei Sargassi occidentale, abbiamo trovato varie particelle di plastica (…) La presenza di queste particelle sulla superficie del mare non era ancora apparsa nella letteratura scientifica».

Ma intanto, intorno a loro e lontano dalle pagine di Science, la plastica stava diventando una protagonista assoluta – con risvolti molto positivi, anche – nella vita quotidiana di miliardi di persone. Soltanto molti anni dopo, sul finire degli anni Novanta, la conoscenza delle insidie ecologiche provocate dallo spropositato eccesso di plastica utilizzata e dal conseguente inquinamento globale hanno iniziato a diventare argomento di discussione al di fuori della cerchia degli scienziati. E da meno di dieci anni il tema ha conquistato l’attenzione dell’opinione pubblica in ogni parte del mondo.

Nel frattempo abbiamo scoperto che la plastica è presente nel mare ad ogni latitudine e ogni profondità, nei fiumi, laghi, nei torrenti e persino nella neve sulle montagne; è presente nelle feci e nella placenta umana; nella frutta e nelle bevande imbottigliate, come nell’acqua del rubinetto… Si tratta di un inquinamento ubiquo e dalla durata tendente all’infinito in assenza di luce, ossigeno e con basse temperature com’è sui fondali marini. E la plastica, per le sue caratteristiche fisiche, è un perfetto vettore per altri inquinamenti e organismi patogeni.

Le immagini delle conseguenze drammatiche sulla fauna marina, degli accumuli di rifiuti sulle spiagge in ogni angolo del pianeta, hanno mobilitato milioni di persone ad agire in prima persona e a chiedere soluzioni di sistema. Oggi, finalmente, iniziano a essere varate e diffuse normative e leggi che tendono via via a ridurre la quantità di plastica in commercio e a regolarne l’utilizzo, per fare in modo che arrivino sul mercato soltanto prodotti realmente riciclabili.

Siamo appena ai primissimi passi e dobbiamo intensificare la marcia verso la soluzione. L’Europa ha varato una strategia complessiva sulla plastica. Nei giorni scorsi anche il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha proposto una plastic tax simile a quella italiana: colpirebbe i polimeri vergini per le plastiche monouso. Molti paesi asiatici e africani stanno percorrendo strade simili. Ma ci vuole ancora di più, uno sforzo globale di sistema, appunto. E dobbiamo evitare che green washing o mistificazioni o edulcorazioni che arrivano costantemente da settori dell’industria e della politica (anche in Italia, nei mesi scorsi su questo stesso tema) prendano spazio e rallentino il processo.

Non è semplice. Ma la vita sulla Terra dipende dal mare, che ricopre tre quarti della superficie del pianeta, ci fornisce oltre metà dell’ossigeno che respiriamo, l’acqua, regola il clima, eccetera. L’attenzione pubblica conquistata dall’inquinamento da plastica ha avuto l’effetto positivo di attirare l’attenzione sul mare e sull’oceano globale come fonte di vita e di benessere, quindi da conoscere, tutelare e valorizzare.

Un mutamento di clima culturale che ha portato al lancio, dal primo gennaio 2021, del Decennio del mare voluto dalle Nazioni Unite, che lo hanno proclamato all’Assemblea generale di New York nel dicembre 2017. Una enorme serie di programmi e azioni concrete che, a partire dalla scienza del mare, toccano e incrociano tutti i settori della società: dall’economia alla cultura, dalla sanità all’innovazione. Fino al 2030 verrà messo in campo uno sforzo inedito e straordinario per creare una nuova generazione di scienziati, professionisti, cittadini, imprenditori, politici che possano sostenere con una conoscenza sempre più profonda, consapevole e determinata lo sforzo degli stati per realizzare l’Agenda per lo sviluppo sostenibile e un futuro di benessere.

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