Nella perfetta cornice offerta dalla festa del Fatto quotidiano e dalla compagnia di Pier Luigi Bersani (in collegamento), Stefano Patuanelli, Elly Schlein e Andrea Scanzi (sul palco assieme a lui), l’infaticabile Goffredo Bettini è tornato a fare ciò che gli riesce meglio: dire chiaro e tondo quello che molti preferiscono dissimulare o al massimo lasciar intendere per allusioni e mezze frasi. E cioè che la posizione ripetuta spesso dal leader del suo partito, Enrico Letta, sin dal discorso davanti all’assemblea nazionale che lo ha eletto segretario del Partito democratico, riassumibile nella formula «il governo Draghi è il nostro governo», è una posizione sbagliata. E ugualmente sbagliato è dire o lasciare intendere – come ha fatto Letta – di volere l’ex presidente della Bce a Palazzo Chigi fino al 2023, perché Mario Draghi rappresenta una «garanzia repubblicana» e può svolgere questo ruolo anche «con altre funzioni» (al Quirinale, evidentemente), mentre tenerlo a Palazzo Chigi fino alla fine della legislatura rischierebbe addirittura di «logorare questa risorsa repubblicana».
In poche parole, tale e quale la posizione di Matteo Salvini, che tanto scandalo aveva suscitato nel Pd, quando aveva manifestato l’intenzione di eleggere Draghi alla presidenza della Repubblica. Non perché i democratici non lo ritenessero e non lo ritengano tuttora un ottimo candidato per quel ruolo, ovviamente, ma per l’evidente secondo fine con cui il leader della Lega avanzava la proposta, vale a dire interrompere l’esperienza del governo e andare alle elezioni anticipate.
Dunque, se questo era in effetti il vero obiettivo di Salvini, e nessuno ne ha mai dubitato, è legittimo domandarsi, dal momento in cui la proposta è esattamente la stessa, se non sia anche l’obiettivo di Bettini, e magari pure degli altri partecipanti al dibattito, e degli stessi organizzatori.
Dopo avere messo nero su bianco in un documento che il governo Conte sarebbe caduto «per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli», Bettini torna dunque a invocare la costruzione del fronte Pd-Cinquestelle-Leu (presumibilmente, anche se questo saggiamente non lo esplicita, guidato dallo stesso Giuseppe Conte), come unica seria prospettiva per il futuro, non appena si sarà chiusa la parentesi del governo Draghi.
Si conferma così una dinamica antica, che potremmo definire lo slittamento progressivo del male minore. A suo tempo, infatti, dinanzi alla totale subalternità ai cinquestelle dimostrata dal Pd, capace di farsi piacere anche i più orrendi provvedimenti dell’esecutivo gialloverde, e perfino di rivotarli (come con il taglio dei parlamentari), era stata invocata proprio la logica del male minore, la causa di forza maggiore, l’assenza di alternative. Ora che l’alternativa è arrivata, e assai migliore, si vede che quell’atteggiamento non era conseguenza di alcuna costrizione, né costava il minimo sacrificio: la verità è che gli piaceva abbastanza.
Bettini dice infatti del governo Draghi quello che avrebbe dovuto dire del governo Conte. È il governo Conte che il Pd avrebbe dovuto presentare sin dall’inizio come parentesi, scelta obbligata, condizione di necessità in cui non rinunciare a far valere le proprie ragioni, conducendo una «battaglia politica quotidiana» per spostare l’asse del suo programma (che è invece quello che Bettini promette oggi all’esecutivo attuale, dando per scontato che le posizioni di Pd e Cinquestelle coincidano, e il problema siano le richieste della Lega). Ma nulla permette di escludere che un domani, per la stessa legge dello slittamento progressivo del male minore, sarà Salvini l’alleato con cui costruire un nuovo centrosinistra, per evitare il pericolo di un governo Meloni.
In ogni caso, quello che appare chiaro dalle parole di Bettini è che il rischio di un voto anticipato, dopo l’elezione del prossimo presidente della Repubblica, è reale e concreto, tanto più dopo l’eventuale illusione ottica di un trionfo del centrosinistra alle amministrative di ottobre (ipotesi da non scartare affatto, visti i candidati del centrodestra).
Non sarebbe certo la prima volta che un centrosinistra galvanizzato da una fortunata tornata amministrativa decide di puntare tutto sulle elezioni anticipate: il ventennio berlusconiano cominciò proprio così.
Questa volta, considerando anche i rilevanti guasti politici e istituzionali già prodotti dall’alleanza Pd-Cinquestelle-Leu, a cominciare proprio dal taglio dei parlamentari, i nuovi progressisti potrebbero essere persino più sfortunati. Per non parlare degli italiani.