Adrian Bernabé è un centrocampista spagnolo classe 2001, prodotto del vivaio del Barcellona poi passato all’Academy del Manchester City. In estate la dirigenza inglese gli ha offerto il rinnovo del contratto che era scaduto il 30 giugno. Lui ha rispedito la proposta al mittente: il tempo per giocare al QA nelle squadre giovanili è finito ma ai Citizens in prima squadra non avrebbe trovato posto, l’unica soluzione sarebbe stata un prestito a un altro club. Chissà dove: magari sarebbe finito nella squadra disposta a pagare la commissione più alta, non a quella più funzionale alla sua crescita.
Bernabé si è trasferito a parametro zero al Parma, che quest’anno gioca in Serie B, dove troverà in panchina Enzo Maresca, il suo ultimo allenatore al Manchester City. La decisione di svincolarsi da uno dei club più grandi e più forti d’Europa, di retrocedere in una categoria più bassa pur di giocare per la società che detiene il suo cartellino, ha un sottotesto importante: la priorità numero uno per Bernabé era lo sviluppo delle sue qualità come calciatore, e forse non era la stessa del City.
Il giovane spagnolo, il suo agente, o chi per lui, sanno che c’è un lungo archivio di giovani promesse del calcio bruciate in giri interminabili di prestiti. Una lista infinita di operazioni – solitamente di top club europei come il Manchester City, il Chelsea, il Paris Saint-Germain, il Real Madrid – che non hanno come primo obiettivo la valorizzazione del giocatore, almeno non in senso strettamente calcistico, umano, personale.
La sessione di calciomercato appena conclusa ci dice che con la crisi la polarizzazione economica del calcio si è accentuata, anche se Aleksander Ceferin e la sua Uefa continuano a dire che il calcio è del popolo.
Se molte squadre hanno avuto le mani legate a causa della mancanza di liquidità, quelle finanziariamente più forti sono state padrone incontrastate del mercato. Quasi come se la pandemia non le avesse colpite.
Come fanno da anni, Manchester City, Chelsea, Psg hanno camminato su due binari: da un lato c’è il calciomercato della prima squadra, che deve essere competitiva e puntare a ogni trofeo ogni anno; dall’altro lato c’è una compravendita di giocatori – in gergo si usa l’espressione inglese player trading – che non arrivano mai in prima squadra ma vengono ceduti in prestito un anno sì e l’altro pure.
Uno schema che porta i giocatori a essere trattati come semplici asset di mercato: se il loro valore cresce, allora vengono venduti, altrimenti si attende un altro anno (con un altro giro in prestito). Le entrate prodotte in questo modo, sommando decine e decine di transazioni, finanziano parte del mercato che dovrà comporre la rosa della prima squadra.
Linkiesta ne ha parlato con Rob Wilson, economista britannico che si occupa di economia e gestione di società sportive: «I club ricchi accumulano giovani prospetti offrendo loro contratti che i club piccoli non possono garantire; li danno in prestito per coprire i costi iniziali e poi vendono per realizzare profitto. Raramente portano i giocatori in prima squadra. Questo è un modo economico di accumulare ricchezza, assicurarsi talenti e ridurre i rischi praticamente a zero, dal momento che le spese iniziali per acquistare i cartellini sono minime rispetto alle disponibilità del club. La storia ci dice che in questo modo si creano sempre delle plusvalenze: lo fanno in tanti, ma City e Chelsea lo fanno meglio di tutti».
L’esempio preferito di Wilson è Patrick Bamford, centravanti della middle class britannica che il Chelsea acquistò per meno di 2 milioni di sterline del 2012, quand’era un giovane promettente. I Blues lo hanno prestato ogni anno a un club diverso, fino a gennaio 2017, quando è stato venduto al Middlesbrough per una cifra vicina ai 5 milioni. Oggi ha trovato la sua fortuna nell’undici titolare di Marcelo Bielsa al Leeds. Ma molti altri giocatori hanno avuto sviluppi di carriera meno interessanti, smarriti in chissà quale punto della spirale di prestiti in cui erano coinvolti.
Il Chelsea ha iniziato questo genere di operazioni negli anni Duemila, con l’arrivo di Abramovich alla guida del club. Uno dei primi giocatori è stato il difensore serbo Slobodan Rajkovic, nel 2005: oltre 5 milioni il costo del cartellino per prelevarlo dall’Ofk Belgrado, a 16 anni. Due anni di prestito a Belgrado, poi altri quattro in Olanda che ne hanno ridotto il potenziale a zero. Alla fine la cessione all’Amburgo per 2 milioni: i Blues avevano già ammortizzato la spesa iniziale quindi hanno realizzato una plusvalenza. Dopo aver girovagato per l’Europa, passando anche per Palermo e Perugia, quest’estate è tornato in Serbia, al crepuscolo di una carriera che nel 2005 sembrava destinata a raggiungere altre vette.
Questo è stato perfezionato dopo il 2009, cioè da quando Marina Granovskaia è diventata amministratrice delegata del club londinese. Con lei il Chelsea ha moltiplicato gli incassi medi annuali dovuti al player trading: sono cresciuti da 23,6 milioni a 83 milioni di sterline in una decina di stagioni.
Se il Chelsea ha avuto il merito di tracciare il sentiero, il Manchester City degli sceicchi è subito entrato in scia: quest’estate il calciomercato della prima squadra è stato relativamente blando, senza grandi colpi, ma il club ha spedito in tutto il mondo ben 29 giocatori in prestito, soprattutto a club satellite o amici che accettano di completare la rosa con gli esuberi del City.
Il New York Times, in un articolo firmato da Rory Smith, ha raccontato la parabola di Marlos Moreno, acquistato cinque anni fa, 19enne, dall’Atlético Nacional (club colombiano) per 5 milioni di euro con un contratto quinquennale: chiuso il primo contratto ha subito firmato il rinnovo, ma non ha ancora mai giocato una singola partita per i Citizens.
«Il flusso costante in entrata che arriva dai prestiti può sembrare poca roba per una squadra come il Manchester City o il Chelsea, ma su tante operazioni diventa linfa vitale per mantenere la squadra competitiva: basta pensare che il Chelsea quest’estate ha riportato a casa Romelu Lukaku bilanciando le spese così», scrive il New York Times.
Va sottolineato che moltissime società usano i prestiti per sviluppare i giovani promettenti quando questi ancora non hanno un posto in prima squadra. E non sempre una cessione temporanea brucia un giovane talento.
In Italia l’Atalanta è forse l’esempio più virtuoso, in questo senso. Però ha un modello economico leggermente diverso, come spiga Rob Wilson: «Per i club meno ricchi, come anche il Southampton in Inghilterra, queste entrate servono proprio per sostenere il club, che altrimenti non potrebbe crescere. Per questo loro hanno un maggior interesse affinché il giovane cresca nel migliore dei modi. Ciò significa che i ragazzi passano in prima squadra più rapidamente, o vengono venduti prima, non esistono prestiti pluriennali perché hanno bisogno o di un giocatore pronto per la prima squadra o di un’entrata consistente. Invece i grandi club non hanno la stessa pressione economica». Inoltre i club per più piccoli è più difficile accumulare decine di contratti: comporterebbe un investimento iniziale insostenibile.
«Non sono un allenatore, né un esperto nello sviluppo dei giocatori – dice ironicamente Wilson – ma la storia recente dice che molti giovani avrebbero fatto bene a ignorare il contratto importante con una grande squadra quando non avevano possibilità di giocarci». Come ha fatto Adrian Bernabé.
Un agente che lavora per una società di rappresentanza di calciatori – che preferisce rimanere anonimo – dice a Linkiesta che molte di queste operazioni hanno uno scopo meramente economico, di bilancio.
«Ogni singola operazione di mercato, sia essa in prestito, a titolo definitivo o uno scambio, ha come obiettivo quanto meno quello di non creare un buco tra spese, ammortamenti e commissioni varie. Nella peggiore delle ipotesi deve essere un pareggio», dice, «per questo motivo molto spesso le società si accordano per operazioni che guardano solo al bilancio, e non perché quella sia la destinazione migliore possibile per il ragazzo».
A questo punto la conclusione è ovvia, è nelle parole scelte da Rory Smith sul New York Times: «C’è un punto critico, è una domanda semplice: fin quando può andar bene questo modello? Le ragioni economiche dei club sono chiarissime e non rappresentano un problema di per sé. Però l’idea che i giocatori siano visti come asset e non come atleti è uno di quei rari problemi che nel calcio avrebbe una soluzione relativamente facile: le autorità (come la Uefa, ndr) potrebbero stabilire che i club possono avere solo un certo numero di professionisti sui loro libri paga, o vietare di avere più di cinque o sei giocatori in prestito contemporaneamente. Sembrerebbe facile, ma non accadrà. E verosimilmente nei prossimi ci saranno sempre più Slobodan Rajkovic e Marlos Moreno, calciatori legati a un club che li usa non per quello che sanno fare ma per quello che possono portare in cassa».