Le immagini di frenesia e disperazione dall’aeroporto di Kabul nei giorni successivi alla capitolazione talebana hanno saturato i notiziari di tutto il mondo. I media cinesi hanno enfatizzato il fallimento statunitense in Afghanistan in ogni modo, ricordando a Taiwan quanto essa rimanga vulnerabile anche con la superpotenza americana dalla sua parte,
In questo articolo pubblicato sull’Atlantic, l’autore Timothy McLaughlin spiega tuttavia come il compiacimento cinese per il ritiro delle truppe americane nasconda in realtà una profonda preoccupazione: l’ansia di Xi Jinping e compagni rispetto ai risvolti futuri nella collaborazione con i talebani.
In particolare, si teme il proliferare del terrorismo di matrice islamica e la potenziale disponibilità dell’Afghanistan a ospitare cellule del Movimento Islamico del Turkmenistan (Etim), un gruppo uiguro che in passato ha avuto contatti con Al-Qaeda ed è stato il mandante di attentati terroristici all’interno della regione nordoccidentale dello Xinjiang.
La Cina nutre preoccupazioni di vecchia data sui gruppi militari islamisti. Proprio con questa pretesa aveva portato avanti la sua campagna di repressione contro la minoranza uigura nella regione, un genocidio culturale perpetrato dal governo comunista.
Il ritiro da Kabul potrebbe liberare gli Stati Uniti e indurli a perseguire con maggiore impegno la campagna di investimenti economici nel sud-est asiatico e nell’Indo-Pacifico, inasprendo ulteriormente i rapporti con Pechino.
L’Isola di Formosa (alias Taiwan) rappresenta da diversi anni il principale terreno di scontro geopolitico tra le due superpotenze. Formalmente riconosciuta come Repubblica di Cina, Taiwan è una sorta di purgatorio diplomatico sgradito alle Nazioni Unite, con il quale le amministrazioni a stelle e strisce hanno mantenuto un rapporto di ambiguità strategica negli anni recenti: mentre il Partito comunista cinese ha intensificato la sua retorica intimidatoria, gli statunitensi hanno continuato a vendere armi all’esercito taiwanese e a inviare delegazioni formali e informali sul territorio.
Sull’isola, l’obiettivo di polarizzare il dibattito politico a seguito dei fatti afghani ha avuto successo. Il principale partito di opposizione taiwanese, il Kuomintang (Kmt, tradizionalmente favorevole a legami più stretti con la Cina) ha aperto al dialogo con Pechino, affermando come la caduta di Kabul dimostri che non ci si può fidare degli Stati Uniti.
Al contrario, il premier Su Tseng-chang ha risposto a tono quando gli è stato chiesto delle implicazioni del ritiro: «Dobbiamo proteggere questo paese e questa terra. Non dobbiamo essere come certe persone che parlano sempre del prestigio del nemico sminuendo la nostra determinazione».
Ma Taiwan e Afghanistan rappresentano due profili diversi. Come afferma Kharis Templeman, ricercatore presso la Hoover Institution della Stanford University, Taiwan sostiene un impregno economico e politico di caratura maggiore: «Ciò che Biden fa in Afghanistan non dice nulla ai cinesi su ciò che farebbe o non farebbe nello stretto di Taiwan. A differenza dell’Afghanistan, ha un’enorme importanza strategica per gli Stati Uniti e i suoi alleati: un’acquisizione di Pechino rappresenterebbe una minaccia considerevole per il Giappone e le Filippine (alleati nel trattato americano)».
Su questo fronte, la pervasività della narrazione cinese sta avendo effetti anche all’interno dell’America: sta politicizzando un problema – il sostegno a Taiwan – che ha goduto di un ampio sostegno dei partiti.
Su fronte repubblicano, rispondendo al conduttore di Fox News Sean Hannity, l’ex presidente Donald Trump ha dichiarato che «cose brutte sarebbero accadute a Taiwan» dal momento che «la Cina non rispetta più la nostra leadership e il nostro paese».
Ha fatto scalpore anche lo scivolone mediatico del senatore repubblicano John Cornyn: in un tweet che tentava di dimostrare come la stabilità afghana sarebbe continuata mantenendo solo una piccola presenza statunitense, ha sostenuto che gli Stati Uniti avessero 30mila soldati a Taiwan, molti più di quanti fossero quelli in Afghanistan prima del ritiro. Il numero era sovrastimato: gli Usa hanno ritirato la loro presenza militare dall’isola nel 1979. L’errore ha innescato la risposta dei media statali cinesi, con minaccia di guerra annessa (prima che il post fosse cancellato).
L’ottimismo di Pechino si è riverberato in un editoriale sul New York Times scritto da un ex colonnello dell’Esercito di liberazione cinese, Zhou Bo. Bo ha osannato la Via della seta e il suo futuro radioso; ma soprattutto, è sembrato fiducioso rispetto agli impegni talebani nel rimanere pacifici con la Cina.
Eppure, la reazione di Pechino non è stata del tutto uniforme: parlando al sito di notizie nazionalistiche Guancha.cn, Liu Zongyi, segretario generale del Centro di ricerca per la cooperazione Cina-Asia meridionale presso l’Istituto di studi internazionali di Shanghai, ha offerto una valutazione più sfumata e meno vittoriosa.
I timori sul futuro sono legati però soprattutto alle manovre statunitensi. In occasione di una visita a Singapore, il vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris ha rinnovato le richieste già avanzate da Barack Obama rispetto all’impegno americano sul fronte dell’Indo-Pacifico e del sud-est asiatico. Questi territori avrebbero «dettato il futuro del nostro mondo», aveva dichiarato con lungimiranza.
L’avamposto verso l’Asia è stata un’ipotesi a lungo sostenuta dall’amministrazione Obama senza tuttavia mai concretizzarsi realmente. La preoccupazione è che, sulla scia del collasso afghano, si possa ora aprire uno spiraglio interventista per gli Stati Uniti. E lo sguardo, ora, sarebbe rivolto a Taiwan.