Gabbia socialCosì la Cina è riuscita a rafforzare la dittatura con la tecnologia

L’idea che le piattaforme abbiano bisogno di un ambiente libero per affermarsi è stata smentita da Pechino. Come sostiene Massimo Russo in “Statosauri” (Quinto Quarto) in questo caso ha giocato più il fattore del benessere rispetto a quello dei diritti

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Pechino è stata a lungo un rompicapo per economisti e politologi. L’assunto con il quale l’allora segretario di Stato Usa Henry Kissinger aveva aperto alla distensione e al commercio con il segretario del partito Deng Xiao Ping era che in fondo benessere e capitalismo non avrebbero tardato a essere il cavallo di Troia per diritti e democrazia.

Nulla di tutto questo è accaduto. Il paese è riuscito a scindere per decenni i primi dai secondi, includendo la stessa iniziativa privata nel novero delle qualità necessarie per essere buoni comunisti e buoni membri del partito. «Non mi interessa di che colore è il gatto, l’importante è che prenda il topo»; «Diventare ricchi è glorioso»; «Facciamo diventare ricco qualcuno, per prima cosa».

Deng ribalta tutti gli assiomi della rivoluzione culturale di Mao e, a partire dal 1978, la Cina comincia la grande cavalcata che la porterà in quarant’anni a essere la seconda economia del pianeta, in corsia di sorpasso per il primato assoluto. Gli indicatori sono miracolosi, l’accelerazione anche. Tra 1978 e 2018, l’aspettativa di vita passa da 66 a 76 anni; la quota del prodotto interno lordo cinese sulla ricchezza mondiale dal 2 al 18%; il tasso di alfabetizzazione dal 65 al 96%; la popolazione urbana dal 18 al 58%; il tasso di mortalità infantile da 52,6 decessi ogni 1000 nati a 8. Nascono le zone economiche speciali a ridosso di Hong Kong, Taiwan, Macao. Shenzhen è la fabbrica del pianeta.

Tutto ciò non ferma le sanguinose repressioni degli Uiguri, i crimini di regime in Tibet, il massacro degli studenti in piazza Tien An Men nel 1989, dopo il quale Deng, per decenza, si ritirerà.

Ma la politica di Pechino non cambia. Anzi Xi Jinping, divenuto segretario del partito nel 2012 e leader a vita nel 2018, in qualche modo la riafferma e la potenzia, consolidando i primati nella manifattura dei chip, nell’intelligenza artificiale, nella robotica, nella genetica, nel settore delle batterie elettriche, e procedendo di pari passo alla compressione dei diritti a Hong Kong, con una campagna repressiva che neppure la pandemia è riuscita a fermare.

Ma come: e la società aperta? E le libertà senza le quali le piattaforme non riescono ad affermarsi?

Per rispondere bisogna ricordare alcune peculiarità del paese: il suo essere più popoloso di un continente, con 1,4 miliardi di persone, un quinto della popolazione della Terra; il sussistere in Cina di una cultura millenaria in cui la prima persona si coniuga sempre al plurale piuttosto che al singolare, e dunque naturalmente rispettosa dell’autorità; soprattutto, un benessere ancora lontano dall’esaurirsi.

Fino ad ora in Cina la dicotomia progresso materiale/libertà di pensiero è stata risolta in modo apparentemente semplice: totale coincidenza delle piattaforme con l’impero.

I documenti come la patente di guida vengono rilasciati dallo Stato all’interno della piattaforma WeChat, che rappresenta oltre il 98% delle destinazioni che altrove sono siti web. L’identità social è l’identità anagrafica. Il punteggio sociale o social score, introdotto per certificare l’affidabilità creditizia dei singoli sulle piattaforme di e-commerce come AliBaba, è divenuto anche un punteggio di cittadinanza: si viaggia solo al di sopra di una certa soglia, altrimenti niente bus e aerei. Un comportamento socialmente positivo e fedele al partito (c’è anche un’applicazione che premia i virtuosi) fa crescere il proprio punteggio; indulgere in rapporti con chi è più in basso in classifica può facilmente condurre invece a una perdita di punti, di diritti, dei posti di lavoro più favorevoli, come nella serie televisiva Black Mirror.

La chiave più importante per capire il rebus cinese me l’ha data Chengdong Yu, noto in Occidente anche con il nome di Richard Yu, amministratore delegato di Huawei Consumer, il colosso delle comunicazioni, del 5G e dei telefonini oggi divenuto il belzebù degli Stati Uniti.

Quando gli ho chiesto il perché del miracolo economico, non ha avuto dubbi: «Dalla fine degli anni ’70 abbiamo abbracciato il mercato. Quarant’anni di apertura al mondo moderno, prima eravamo come la Corea del Nord. Questo ha fatto la differenza. Inoltre, c’è qualcosa nella cultura cinese, le persone lavorano duro, c’è una grande tradizione di disciplina. Ogni famiglia tiene molto all’istruzione dei propri figli. Tutto questo ha fatto parte del nostro modo di essere per oltre tremila anni».

Shenzhen, dove Apple produce gli iPhone nello stabilimento Foxconn, a poca distanza rispetto a Huawei, somiglia molto di più a Palo Alto che alla nostra idea del Celeste impero. I figli di Yu hanno le stesse opportunità dei loro coetanei che studiano a Stanford.

Fermiamoci un momento a riflettere su quale salto nel tempo ciò debba aver comportato per questo ingegnere di 51 anni e per la sua generazione. Ascoltiamolo: «Quando ero ragazzo, prima degli anni ’80, nella città dove sono nato non c’era lavoro meccanizzato, nei campi tutto era fatto a mano. I miei genitori erano contadini. Un lavoro terribile. Nel 1987 quando sono andato all’università era ancora così, da studente lavoravo in fabbrica ed era molto pesante».

Ora riprendiamo l’idea della miopia di Saffo: non sarà che è ancora troppo presto, il benessere economico troppo recente, la cultura cinese troppo diversa, per aver preteso che si sviluppasse anche qui un’uguale richiesta di diritti e democrazia? Ci soccorre ancora una volta Luciano Floridi che, tra il serio e il faceto, ha elaborato un parametro quantitativo al di sotto del quale potrebbe scattare la ribellione:

Oggi sappiamo che ci vuole molta pressione per ribellarsi a un regime repressivo e che tale pressione è alleviata dalla crescita economica. Quindi, con una semplificazione eccessiva […], si può dire scherzando che in Cina il costo della democrazia è una crescita annua del Pil di almeno il 7%: se fosse inferiore, le persone potrebbero iniziare a lamentarsi, politicamente e in massa, perché potrebbero desiderare una società economicamente migliore, attraverso una politica migliore. Quando il tasso di crescita è più alto, sono gli studenti, gli idealisti, gli attivisti e poche altre persone politicamente consapevoli a mettere a repentaglio la loro libertà, la loro vita, e a protestare per una società migliore, ma rimangono una minoranza. Più in generale, i poteri autocratici non corrono il rischio di essere ribaltati dalle masse se queste ogni anno possono aspettarsi un anno migliore.

Malgrado il virus, la Cina è ripartita, anche se più lentamente rispetto al passato, ed è stata una delle pochissime nazioni al mondo a vedere un segno più davanti alla ricchezza prodotta nel 2020.

da “Statosauri. Guida alla democrazia nell’era delle piattaforme”, di Massimo Russo, Quinto Quarto edizioni, 2021, pagine 205, euro 16