Ora e sempre desistenzaIl patetico scambio di amorosi sensi tra Conte e Letta sulla tratta Siena-Roma

Il non leader del M5S vuole candidarsi nel collegio che sarà lasciato libero da Roberto Gualtieri in caso il dem venga eletto sindaco della Capitale. Lo schema della spartizione dei collegi uninominali potrebbe essere ripetuto anche alle elezioni politiche grazie a un cartello elettorale Pd-LeU-M5s, una specie di gauche alle vongole

LaPresse

Giuseppe Conte vuole essere candidato in quel collegio di Roma Centro che verrà lasciato libero da Roberto Gualtieri, ovviamente se questi verrà eletto sindaco di Roma (cosa che dunque l’avvocato del populismo vivamente si augura e per cui si spenderà, in barba alla candidata del suo partito Virginia Raggi). Per aggiudicarselo però ha bisogno di una dettaglio non secondario: che il Partito democratico non si presenti in quel collegio. Che desista, come si dice in gergo. Sarebbe una generosa ricompensa per la mancata presentazione di candidati grillini a Siena, dove corre il segretario nazionale Enrico Letta, e a Roma Primavalle, dove corre il segretario romano Andrea Casu. Due al prezzo di uno, come il vecchio Carosello di un famoso detersivo.

Se sulla vittoria di Letta non ci sono grandi patemi, su quella di Casu (nel collegio dove vinse proprio il Movimento 5 stelle!) ce ne sono eccome: ma un eventuale insuccesso non sarebbe addebitabile ai grillini che hanno deciso di non ostacolare il capo dei dem romani.

Ovviamente, nessuno ammetterà mai lo scambio di amorosi sensi sulla tratta Siena-Roma. Ufficialmente – scriveva ieri Repubblica it – c’è la volontà di non disperdere i voti. Non significa niente.

Non è dunque solo per «sparire» dal radar da votazioni prevedibilmente negative (Il Foglio), e nemmeno per coprire la realtà di un Movimento «che non parte» (Massimiliano Panarari sulla Stampa) – c’è anche tutto questo – che i grillini restano sott’acqua ma anche e soprattutto per poter scartare il regalo che i dem dovrebbero fargli nella Capitale: un seggio all’ex punto di riferimento fortissimo dei progressisti, Conte avvocato Giuseppe. Sempre nella speranza che la legislatura continui fino al 2023, aspirazione indissolubilmente legata a quegli emolumenti ai parlamentari che non si è capito bene se vengano ancora tagliati o no (il mitico sito Tirendiconto nel frattempo è morto).

Lo schema dell’ora e sempre desistenza – o meglio: della spartizione dei collegi uninominali – potrebbe così essere ripetuto anche alle elezioni politiche grazie alla formazione di un cartello elettorale Pd-LeU-M5s, una specie di gauche alle vongole, incarnazione palluda al limite del cadaverico dei Progressisti, per non dire dell’Ulivo, un’Italia bene comune (la coalizione di Bersani del 2013 che fece una brutta fine) allargata ai grillini. Un residuo coalizionale in éra proporzionale, dunque un accrocco più che una linea.

D’altra parte al Nazareno qualcuno ha capito che Conte non è in grado di arrestare la parabola discendente del partito di maggioranza relativa che sta andando incontro a una débâcle forse catastrofica alle prossime amministrative del 3 e 4 ottobre, anche nella Roma di Virginia Raggi dove è da vedere se andrà in doppia cifra. E a maggior ragione i voterelli grillini fanno comodo a un partito come il Pd che non riesce a raggiungere questa benedetta cifra del 20%, come attesta l’ultimo sondaggio Swg. Ma tutto questo è anche la fotografia di una doppia debolezza e una pagina di non bella politica.

Perché lo scambio Letta-Conte passando per la battaglia minore di Roma Primavalle viene stipulato così, un pochino rozzamente, fuori cioè da una vera realtà di coalizione. I Progressisti (la sfortunata macchina da guerra di Achille Occhetto), l’Ulivo di Romano Prodi e Walter Veltroni quelle sì che erano vere coalizioni, nel senso che avevano un progetto, regole, simboli, dirigenti comuni. Qui non c’è nulla di tutto questo. Ma solo una serie di patti non scritti e meno che mai discussi da alcuno. 

La domanda è se i militanti e gli elettori del Pd accetteranno senza battere ciglio l’assenza del loro simbolo e del loro candidato a favore di un uomo che non solo vanta nel suo curriculum la ben nota disinvoltura nel cambiare cavallo ma che in questo periodo sta denotando una fragilità politica persino superiore alle peggiori aspettative, dalla frettolosa e superficiale apertura ai talebani al disconoscimento dei decreti sicurezza di Salvini da lui firmati in quanto premier di quel governo.

Il neo-leader ha speso tutti questi mesi per fare la pace con Beppe Grillo e produrre documenti che non interessano nessuno, meno che mai i militanti grillini, nella totale assenza di indicazioni politiche di respiro: e tutto questo non è esattamente un bel biglietto da visita per i dem che dovranno sostenerlo a Roma Centro. Sempre che ci arrivi. E che qualcuno non lo faccia desistere, è il caso di dire.

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