La penna nel bicchiereUn brindisi con i grandi della letteratura

Vino e liquori, ma anche tè, caffè e latte. Bevande di ogni genere e gradazione hanno accompagnato gli scrittori che hanno creato romanzi e poemi passati alla storia. Abbiamo cercato di ricostruire gusti, passioni e debolezze di dieci di loro

Dante Alighieri

«Ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia: / dal Torso fu, e purga per digiuno / l’anguille di Bolsena e la vernaccia…». A pagare per la sua passione per la buona tavola e per il buon vino è Papa Martino IV. A raccontarne le sofferenze è Dante Alighieri, nel Canto XXIV del Purgatorio: in un verso che viene indicato come la sola citazione di un vino nell’intera Commedia. Del resto Dante non risulta essere stato un appassionato dell’arte culinaria e tanto meno del buon bere. Lo dimostra il trattamento riservato, fra Purgatorio e Inferno, a ingordi e golosi. E lo conferma il suo primo biografo, Giovanni Boccaccio, che lo descrive come estremamente sobrio. Il che non significa però che il sommo poeta non conoscesse i vini della sua epoca e le procedure per realizzarli, come è dimostrato dalle (corrette) citazioni di molti strumenti utilizzati per la coltivazione delle vigne e per la produzione del vino. Un’attività che interessò sicuramente la famiglia Alighieri nel periodo dell’esilio veronese, tanto che suo figlio, Pietro, il 24 aprile 1353 acquistò “due pezze di terra”, di Casal dei Ronchi, in Valpolicella, per coltivarle a vigna. Una tenuta che esiste ancora oggi ed è di proprietà della famiglia Serego Alighieri. Quello che resta però in dubbio del citatissimo verso dedicato al Papa goloso è il vino usato dal pontefice per “affogare” le anguille: Vernaccia, certamente. Vernaccia di San Gimignano, si è sempre detto. Ora però una diversa “scuola di pensiero” offre un’interpretazione alternativa. Quel vitigno, dicono alcuni, arrivò in Toscana dalla Liguria intorno al 1300 ed è quindi possibile che si tratti di un vino ligure, prodotto nelle Cinque Terre: a Vernazza. Origine che ne spiegherebbe il nome. Insomma: una sorta di Sciacchetrà di oltre 700 anni fa.

Joyce e Svevo
E seicento anni servono per compiere il balzo che può portarci da Firenze a Trieste e trovare altri due scrittori tanto diversi da rendere arduo capire come potessero essere amici. Eppure nei primi anni del Novecento era facilissimo trovare per le vie della città e nei suoi caffè Italo Svevo e James Joyce. Italiano, anzi di estrazione asburgica, il primo; irlandese il secondo. Elegante e raffinato l’uno; insegnante squattrinato e schiavo dell’alcol, l’altro. Una “strana coppia” che si ritrovava spesso nei locali triestini: alla Pasticceria Pirona o all’Osteria di via della Sanità. Ma soprattutto nei caffè, a cominciare dal Caffè San Marco, frequentato dagli intellettuali triestini. E anche nella scelta delle bevande da consumare nulla li accomunava.

James Joyce

Aron Hector Schmitz, vero nome di Italo Svevo, era appassionato di caffè. Al di là del bicchiere di vino che avrà sicuramente bevuto fra le mura domestiche, i suoi biografi lo indicano esclusivamente come un accanito consumatore di caffè.

Italo Svevo

Per Joyce, al contrario, è difficile, quasi impossibile, indicare una preferenza precisa: l’alcol era il suo demone e prendeva le forme più disparate: dalla birra e dal whisky della sua terra di origine, ai vini e liquori italiani e francesi.

Georges Simenon

In Francia, a La Rochelle, al Café de la Paix, sotto i portici di rue Chaudrier, hanno invece preso vita molti dei racconti di Georges Simenon, che del locale era diventato un cliente abituale e una presenza quotidiana. Di lui si sa che non aveva una particolare passione per il whisky e che anche lo Champagne lo lasciava piuttosto indifferente. Non si ha invece notizia di una bevanda che lo appassionasse particolarmente. Se i suoi gusti in materia possono essere dedotti dalle consumazioni del suo personaggio più famoso, il commissario Maigret, la conclusione è che bevesse un po’ di tutto: il Martini dry, il Cognac, ma anche l’Armagnac e soprattutto il Calvados. Senza dimenticare la birra, particolarmente gradita fresca per dissetarsi nei mesi estivi. Per gli aperitivi il commissario propende, da buon francese (a differenza del belga Simenon) per il Pernod. E il vino? Anche qui la gamma è piuttosto varia: dal Beaujolais allo Chateneuf du Pape, dal rosé di Provenza, al Chianti.

Jane Austen

Ma non ci sono soltanto gli alcolici. In Inghilterra Jane Austen è conosciuta come una fedelissima consumatrice di tè. In famiglia lo si beveva a colazione, ma anche durante la giornata, in occasione della visita di amici o parenti e pure dopo cena. Più raramente nel salotto poteva comparire una tazza di cioccolata. Un consumo quotidiano, quindi, che non deve far pensare però al classico tè delle cinque, divenuto un simbolo della vita britannica. L’appuntamento pomeridiano con la tazza di tè, accompagnata da stuzzichini più o meno abbondanti, si va affermando in epoca Vittoriana, dopo il 1837, quando la bevanda prodotta con le foglie provenienti dall’India andò gradualmente a conquistarsi il titolo di bevanda nazionale.

Arthur Conan Doyle

E bevanda nazionale era sicuramente nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento che videro nascere e crescere il successo dei romanzi di sir Arthur Conan Doyle. Difficile raccogliere informazioni dirette sulle preferenze dello scrittore scozzese. Dato per scontato il consumo di tè, birra e whisky, per avere qualche indicazione sulle sue abitudini, non resta che affidarsi al suo più celebre personaggio: Sherlock Holmes. Cosa fa bere Conan Doyle al suo infallibile investigatore? Nei romanzi e nei racconti Holmes e il dottor Watson si comportano come tutti gli inglesi del loro tempo. Bevono, appunto, tè, birra, whisky. Più raramente vino, ancora considerato bevanda riservata alla nobiltà (anche per questione di prezzo). Quando ciò accade, però, i due mostrano di avere buona conoscenza della materia, scegliendo vini francesi (Borgogna) e italiani (Chianti), oltre al Tokay ungherese. Senza ovviamente disdegnare un Porto a fine pasto.

Charles Dickens

Informazioni assolutamente di prima mano le possiamo invece avere sui gusti e le abitudini del più grande romanziere inglese: Charles Dickens. La sua indiscutibile passione per i superalcolici è dimostrata da un documento stilato di suo pugno nel 1870, nel quale Dickens descrive con meticolosa cura il contenuto della ricca cantina di liquori di cui disponeva e alla quale attingeva. Quattro pagine di taccuino intitolate “Gad’s Hill Cellar Casks” in cui sono elencate le numerose bottiglie di sherry, brandy, rum e whisky. Il suo interesse però non si fermava al semplice consumo. Lo scrittore si vantava anche di essere un ottimo preparatore di punch, che beveva, e offriva agli amici, nelle serate più fredde. Il suo preferito prevedeva una ricetta piuttosto complessa, articolata in ben 13 passaggi. Gli ingredienti base erano zucchero di canna, tre limoni, due tazze di rum, un quarto di tazza di Courvoisier e cinque tazze di tè nero, decisamente preferito all’acqua calda. Per arrivare al prodotto finito bisognava però seguire una serie di operazioni, compreso uno scenografico “flambé”.

Ernest Hemingway

Da un esperto di punch a un mitico consumatore e preparatore di cocktail: Ernest Hemingway. Impossibile elencare tutte le bevande alcooliche citate nei suoi libri e verosimilmente consumate dall’autore. Dal vino («Uno dei maggiori segni di civiltà nel mondo») al whisky, dal brandy alla sangria. Il suo nome però resta legato in modo particolare ai cocktail, di cui era un quotidiano consumatore e un grande intenditore. «My mojito in La Bodeguita. My daiquiri in El Floridita» ormai è una frase storica e sta a indicare due cocktail e due locali de L’Avana: i preferiti da Hemingway. Che era capace di apprezzarli, ma anche di “aggiustarli” secondo le proprie esigenze. Come nel caso del daiquiri. I suoi biografi raccontano che, durante la sua permanenza a Cuba, “Papa” provò il Daiquiri del Floridita, e disse: «È buono, ma lo preferisco senza zucchero e con rum doppio». Nasceva così quello che oggi è noto come Hemingway Daiquiri o Papa Doble e che successivamente, con l’aggiunta di succo di pompelmo, divenne l’Hemingway Special. Ma lo scrittore non si fermava qui. Fra i cocktail più apprezzati da Hemingway figurano anche il Gibson (una variante del Martini, che “Papa” voleva secchissimo, quasi tutto gin, ma guarnito con cipolle ghiacciate), il Bloody Mary e il Death in the Afternoon, a base di Champagne, che amava tanto da considerarlo «uno degli investimenti migliori, avendo soldi a disposizione». In pratica una coppa di Champagne con un goccio di assenzio.

Gabriel García Márquez

E di cocktail si può parlare anche a proposito di Gabriel García Márquez. In realtà, Gabo non risulta presente nella lista dei grandi intenditori di vini o di alcolici. La sua preferenza andava decisamente al whisky, ma a due precise condizioni: che fosse rigorosamente di malto e adeguatamente invecchiato. Non chiedeva di più. Qualcuno però ha aperto uno spiraglio inedito sulle sue abitudini: c’è chi sostiene che Márquez inventò un cocktail che beveva e offriva (pare con successo) agli amici, ma del quale non rivelò mai la ricetta. Gli unici indizi attualmente disponibili sulla misteriosa bevanda sono che l’odore ricordava un guava marcio e che conteneva rum. Altro, per ora, non è dato sapere.

Fëdor Dostoevskij

E, per chiudere, dai Tropici ci possiamo spostare nelle infinite e gelide steppe della Russia degli Zar per scoprire le (curiose) abitudini di Fëdor Dostoevskij. Secondo la testimonianza della sua seconda moglie, lo scrittore amava la cucina russa, che apprezzava abbinandola però a variazioni originali e del tutto personali, come quelle di accompagnare il pollo bollito con del latte caldo e di bere un bicchierino di cognac prima del dessert. L’abitudine più nota del grande scrittore riguarda però la colazione ed è descritta da Mikhail Aleksandrovich Aleksandrov che racconta: «Una volta, arrivai a casa di Fëdor Mikhailovich mentre faceva colazione e vidi che beveva solo della vodka di grano: dopo aver addentato un pezzo di pane nero ne bevve un sorso e li consumò insieme. Dostoevskij era solito ripetere che quello era il modo più salutare di bere la vodka». Che doveva essere di grano, meglio se distillata in casa.