A proposito dei cosiddetti diritti civili, le impostazioni illiberali della destra e della sinistra non sono identiche. Quella di sinistra è, per così dire, approssimativa: fa fatica a riconoscere quei diritti e a individuarne il perimetro; è facilona e superficiale nella premiazione di alcuni e riluttante o intempestiva nella tutela di altri; una volta, per presunto realismo, vi soprassiede mandandoli in derelizione e un’altra volta, per opposto opportunismo, ci costruisce sopra un castello di improbabili ragioni identitarie. Il risultato, appunto, è un’offerta liberale scarsa, parziale, accidentata, e soverchiata dalla più facile soluzione giustizialista, statalista, ugualitarista e anticoncorrenziale.
A destra, quell’impostazione a sua volta illiberale è tuttavia mossa da un lavorìo istintuale decisamente diverso, e diversamente si sfoga. Da lì, infatti, il rifiuto della soluzione liberale e la predilezione per quella opposta è meccanico, senza mediazione opportunistica: marcire in galera, buttare le chiavi, no alla “droga libera” perché fa male (come se qualcuno sostenesse che fa bene) e perché altrimenti chissà i ragazzini (che come è noto non si fanno le canne con il fumo vietato), e poi spezzare le reni alle nocciole straniere, basta con la pacchia delle immigrate gravide perché prima vengono i figli d’Italia, basta con la cultura gender che vuol molestare l’infanzia bianca e cristiana (c’è l’oratorio, per questo), basta coi referendum che attentano alla sacralità della vita che appartiene a Nostro Signore, lo stesso che si invoca nel comizio contro le zingaracce da schiacciare con la ruspa.
Più si accredita, più la destra accentua quella sua vocazione, e a ogni snodo importante vien fuori per quel che è in profundo: non illiberale perché non capisce, perché ha paura di esserlo, perché teme di cedere consenso, ma perché non è nemmeno remotamente diversa da ciò che dimostra di essere. Vale, adattata, quella vecchia battuta: la destra sembra illiberale, e invece lo è.