Fino a pochi anni fa la cittadina di Fair Bluff, in Carolina del Nord, poco più di 600 chilometri a Sud di Washington, era un posto felice, circondato da campi di mais e tabacco. Un piccolo centro di appena un migliaio di persone che vivevano nella pianura al confine con la Carolina del Sud.
Sono passati esattamente cinque anni da quando l’uragano Matthew ha inondato Fair Bluff e cambiato completamente il volto della città. La tempesta ha sommerso Main Street, ha distrutto il municipio e la caserma e ha allagato quasi un quarto delle case.
Dopo due settimane sott’acqua, le strade si sono piegate. La scuola e il negozio di alimentari hanno chiuso, e poi non hanno riaperto. L’unica fabbrica della città, che produceva vinili, ha chiuso pochi mesi dopo il passaggio dell’uragano Matthew. Quando l’uragano Florence ha sommerso lo stesso terreno due anni dopo, nel 2018, era rimasto ben poco da distruggere.
L’emergenza climatica – definizione più appropriata di “cambiamento climatico” – sta spingendo le piccole comunità rurali come Fair Bluff, molte delle quali erano già in difficoltà economica per altri motivi, sull’orlo dell’insolvenza: invece di riprendersi, i luoghi colpiti più volte da uragani, inondazioni e incendi stanno lentamente scomparendo. I residenti vanno via, i datori di lavoro non trovano impiegati, l’amministrazione non ha introiti per pagare i servizi base e la qualità della vita si riduce ancora spingendo altre persone ad andarsene.
È una condizione che, come scrive il New York Times, sta trasformando la crisi fisica dovuta alle inondazioni e ad altri fenomeni, in una crisi esistenziale. L’articolo del quotidiano americano, firmato da Christopher Flavelle, racconta la condizione di molte realtà distrutte dagli effetti degli uragani e, in generale, dell’emergenza climatica. Condizione che non vale solo per gli Stati Uniti, ovviamente, ma che si ritrova – in forme e modalità differenti – anche altrove.
A Fair Bluff la popolazione di circa mille persone è stata dimezzata dai problemi causati da Matthew. «Un pomeriggio di qualche giorno fa», scrive Flavelle nel suo reportage, «i marciapiedi erano vuoti e le vetrine abbandonate, i loro interni fracassati e disseminati di spazzatura, le porte socchiuse. Il tetto di un edificio era crollato, una bandiera americana malconcia incastrata tra le macerie; all’interno di altri edifici sono stati saccheggiati scaffali, contenitori di plastica pieni di addobbi natalizi, un triciclo capovolto. Alcuni negozi erano disseminati di prodotti per le pulizie e sacchi della spazzatura mezzi pieni, come se i negozianti avessero cercato di riparare i danni dell’alluvione prima di arrendersi».
Il governo federale di Washington avrebbe anche cercato di aiutare il piccolo comune comprando le case delle persone che volevano andarsene, ma non è riuscito a a fare granché (tra l’altro quest’operazione avrebbe portato ancora meno tasse nelle casse cittadine, rendendo l’economia del piccolo centro praticamente inesistente).
Nel 2016, l’Amministrazione Obama aveva istituito un gruppo di coordinamento tra le agenzie che gestiscono questo tipo di disastri, con l’incarico di elaborare un approccio congiunto per quel che gli esperti definiscono “ritiro controllato”, ovvero il trasferimento di intere comunità dalle aree che non si possono mettere in sicurezza. Ma quel gruppo si è fermato durante l’Amministrazione di Donald Trump e non è ancora ripartito.
«Molte città sono in una spirale discendente che minaccia le comunità più povere e più colpite, quelle che si trovavano sulla traiettoria dell’uragano Ida e quelle colpite dalle recenti inondazioni nel Tennessee. Villaggi regolarmente colpiti da tempeste che stanno diventando sempre più frequenti e distruttive a causa del clima», si legge nell’articolo.
In più, anche in caso di trasferimento di massa dai centri danneggiati irrimediabilmente – o quasi – dagli uragani si creerebbero problemi sociali a catena: chi abbandona la propria città spesso non riesce a vendere la sua casa a un prezzo che possa garantire l’acquisto di una casa altrove. E spesso nei comuni vicini la crescita improvvisa della domanda di abitazioni crea disagi sia ai cittadini che arrivano sia a coloro che hanno un fitto da pagare o rinnovare.
«Le piccole città della Carolina del Nord orientale sono state tra le prime ad affrontare una minaccia esistenziale portata dall’emergenza climatica: tra il 1954 e il 2016, lo Stato ha visto il passaggio di 19 uragani abbastanza forti portare le autorità a inquadrare le conseguenza alla voce “disastro”; dal 2018 a oggi, invece, ben quattro uragani hanno avuto conseguenze di questa portata», scrive il New York Times, spiegando che gli effetti del nuovo clima sono già visibili e hanno già un impatto devastante sulla vita delle persone.
L’articolo del quotidiano newyorchese racconta le enormi difficoltà di Fair Bluff nella ricostruzione, i costi insostenibili, l’inadeguatezza degli aiuti federali, l’impossibilità di ripristinare la quotidianità di una città che di fatto non c’è più. «Il governo protegge le persone acquistando le loro proprietà», si legge sul Nyt, «allontanandole dalle case che rischiano di allagarsi o di avere altri problemi strutturali. Ma a questo punto per le città si aggiunge il problema economico: un enigma per qualunque comunità che perde una grossa parte dei suoi cittadini». Il giornalista Christopher Flavelle aggiunge alla storia le difficoltà di altre città della zona, come Princeville o Seven Springs, per costruire una narrazione più ampia.
In ogni città, in ogni comunità, gli effetti sociali ed economici sono quasi incalcolabili: l’emergenza climatica produce effetti a cui probabilmente non c’è rimedio, o almeno non con gli strumenti a nostra disposizione.
La città di Seven Springs nella descrizione del New York Times è come una grande vasca da bagno: era un paesino di qualche centinaio di edifici in prossimità di un fiume, su un terreno leggermente in pendenza che porta all’autostrada. Quando è passato l’uragano Floyd nel 1999 il fiume ha inondato le strade della città, ed è accaduto lo stesso nel 2016 con l’uragano Matthew, e poi ancora nel 2018 con Florence.
Già dopo il passaggio di Floyd la popolazione di Seven Springs si era dimezzata; con l’uragano Matthew si è ridotta ancora. «Oggi ci sono circa 30 case rimaste tra il fiume e l’autostrada, forse una dozzina sono ancora occupate; la popolazione, che ha raggiunto il picco di 207 nel 1960, era scesa a 55 lo scorso anno», si legge nell’articolo.
E la popolazione continua a diminuire. Ogni inondazione non solo rende difficile la vita dei cittadini, ma porta anche l’idea che presto o tardi sarà del tutto impossibile abitare a Seven Springs, come il Times spiega nella chiusa dell’articolo: «Se si dovesse verificare un’altra alluvione come quelle degli ultimi anni, la città sarà definitivamente andata».