A metà degli anni 70 italiani, Eugenio Finardi è un’anomalia del sistema, qualcosa che in Italia non esiste. Primo, perché non esiste il rock, o meglio, quello che c’è ha una parentela piuttosto stretta con il prog, che r’n’r non sarà mai. I cantautori sono sicuramente la fotografia più accurata delle onde d’urto che stanno attraversando il Paese ma, Bennato a parte, non sanno dove il rock stia di casa. Paradossalmente, lo potrebbe essere Battisti, se non fosse per i testi sempre più da mezza età di Mogol, e se solo si palesasse dal vivo.
Eugenio parte meglio: figlio di Enzo, un tecnico del suono, e di Eloise Degenring, cantante lirica americana, cresce a cavallo dell’Atlantico, frequentando la Tufts University dalle parti di Boston, ma la lascia quasi subito e nel 1971 a 19 anni torna in Italia. Negli USA non tornerà a vivere, e culturalmente rimarrà un meticcio, sospeso fra le due sponde dell’Oceano. Siamo agli albori di una scena musicale che si sta evolvendo rapidamente e si avvia verso un periodo straordinario di vitalità.
Il suo posto giusto lo trova nella scena alternativa milanese, quella che nel primo lustro dei 70 raccoglie personalità come Claudio Rocchi e Massimo Villa degli Stormy Six, l’italo-brasiliano Alberto Camerini, l’emigrante catanese Franco Battiato, e di lì a poco il gruppo più influente di quella fusion fra jazz rock ed etnica che sono gli Area.
Nel ’72 con Il Pacco, band che raccoglie Camerini, Rocchi, Lucio Bardi, un Walter Calloni ancora teenager, si esibisce al primo Festival del Proletariato Giovanile di Re Nudo. Il periodo è probabilmente il più fertile artisticamente, e il più complesso e tosto politicamente, della nostra storia recente. Siamo alla vigilia degli anni di piombo.
I movimenti giovanili milanesi sono tanti, c’è di tutto: dai katanga marxisti-leninisti (riferimento di Franco Fabbri degli Stormy Six), al Movimento Studentesco della Statale, dai gruppi del proletariato giovanile alla controcultura alternativa di Re
Nudo, mensile di cultura underground che, a modo suo, fa parte di quell’onda politico-culturale che sorge in quegli anni, una specie di onda lunga del ’68 che ingloba ideologie e posizioni diverse: Il Movimento è il termine onnicomprensivo in cui confluiscono tutti coloro che vogliono cambiare qualcosa, anche se non necessariamente sanno cosa, o come.
«Io in fondo da ragazzo ero un hippy, guardavo al socialismo della Svezia, Norvegia, all’utopia dell’amore e gioia, del paradise now, degli yippies. Era un sogno nel quale credevo, l’egualitarismo, credevo nella felicità, nella pace sociale, nella possibilità illuminista di evolvere e di elevare il nostro spirito a livelli superiori. In questo senso mi sono iscritto al PCI all’inizio degli anni ’70, con questa idea che bisognasse eliminare il più possibile le diseguaglianze, perché già siamo diversi emotivamente, dentro, e non ci sentiamo bene nell’essere alienati, la felicità ci viene dal sentirci parte di una comunità. Scegliendo quella comunità ne ho scelto il linguaggio, gli ideali. Ma non era una situazione monolitica, il PCI era il grande fiume di una possibile evoluzione, con tante declinazioni diverse. Non facevo parte di nessun gruppuscolo, di nessuna delle correnti arrivate dopo, da Lotta Continua a Potere Operaio. Ero, e sono sempre stato, un outsider».
Ma tutto questo è ancora da venire. Nel ’73 arriva alla Numero Uno, l’etichetta di Mogol e Battisti, dove però «volevano che io diventassi quello che poi è diventato Pappalardo, che io cantassi in inglese con il vocione da nero, Mogol mi vedeva così».
Un singolo e via di corsa. Demetrio Stratos lo porta alla Cramps di Gianni Sassi, un pubblicitario, situazionista per vocazione e (definizione classica dei tempi) un operatore culturale a tutto tondo. È l’etichetta indipendente simbolo di quegli anni: grafiche molto curate e omogenee, sorta di still life con oggetti simbolo. Artisti alternativi, sulla frontiera musicale e totalmente liberi di fare. Il primo Lp degli Area esce nel ’73, quello di Eugenio nel 1975, “Non Gettate Alcun Oggetto Dai Finestrini”, come si legge ancora oggi sui treni.
Si apre con ‘Se Solo Avessi’, chitarra elettrica tirata, un’onda di feedback prima che entrino i musicisti con cui farà i primi tre album: quello che sarà il suo fratellino acquisito Camerini e lui alle chitarre, Calloni e Hugh Bullen (dal gruppo r’n’b di Wess) al basso, Lucio Fabbri al violino. Quella, e il canto delle mondine degli anni ’30 ‘Saluteremo il Signor Padrone’, sono l’imprinting che rimarrà: rock duro, durissimo anche, belle e lunghe jam strumentali intinte nel rock-funky-jazz. Qualità tecnica e grinta da vendere.
Nel giro di un attimo, Eugenio crea una via italiana al rock. Veramente un absolute beginner. Non cantautore, ma sorta di cantante solista in una rock’n’roll band, che è tutta un’altra cosa. Più vicino agli Stones e ai Jefferson che a Guccini o Venditti. La vicinanza ai musicisti degli Area e l’amore per il jazz lo fa addirittura spaziare fino al jazz-rock alla Weather Report, vedi ‘Quasar’ su “Diesel”. È l’americano che è in lui che torna a casa, mentre come visione personale e politica è totalmente immerso nella situazione italiana. Nei testi cerca un equilibrio fra realtà fuori e sentimenti individuali, un occhio al Movimento e uno alla propria donna, idealizza lo “stare bene”, la “giusta situazione”.
Usa un po’ troppo le rime baciate, ma ci crede, come un fratello maggiore che prova a capirci qualcosa anche per sè stesso. Parla a nome di una generazione che nel turbinio di emozioni e di avvenimenti degli anni 70 – post68 e femminismo, referendum Radicali e gruppi extraparlamentari, rivoluzione proletaria e Democrazia Cristiana, fasci e compagni, privato&pubblico- fa fatica a trovare una bussola e una direzione, una identità. Ha la sensibilità e la tenerezza per rivolgersi a quelli che hanno pochi anni meno di lui:
«Anna ha 18 anni e si sente tanto sola
Ha la faccia triste e non dice una parola
Tanto è sicura che nessuno capirebbe
E anche se capisse di certo la tradirebbe.
E la sera in camera prima di dormire
Legge di amori e di tutte le avventure
Dentro nei libri che qualcun altro scrive
Che sogna la notte, ma di giorno poi non vive.
E ascolta la sua cara radio per sentire
Un po’ di buon senso e voci piene di calore
E le strofe languide di tutti quei cantanti
Con le facce da bambini e con i loro cuori infranti.
Ma da qualche tempo è difficile scappare
C’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare
È dolce, ma forte e non ti molla mai
È un’onda che cresce e ti segue ovunque vai..»
‘Musica Ribelle’, risentita oggi, non ha perso un grammo di quella rabbia consapevole, il tiro di Calloni e Bullen che sfrecciano come treni AV non ha perso nulla di quella aggressività pazzesca che spinge come una dannata. Suonata con tecnica superiore e punk attitude: «Sarà per sempre condannata a quella esecuzione di quattro furibondi teenager, io avevo 23 anni, Calloni sì e no 18. Eravamo dei ragazzini, entrati alle 10.00 di mattina in studio, il tecnico col camice bianco come ad Abbey Road, la prima take per settare il suono, buona la seconda. Eravamo nell’età della massima creatività, quella dei vent’anni, quella in cui Einstein intuisce la relatività, l’età dell’esperienza arriva dopo. Eravamo come i Maneskin oggi, cazzimma al massimo, l’età in cui produci spermatozoi che sono sommergibili nucleari…».
«È la musica, la musica ribelle,
che ti vibra nelle ossa, che ti entra nella pelle,
Che ti urla di cambiare
Di mollare le menate, e di metterti a lottare».
«Ho dato un unico brief prima di cominciare: no blues. Ma un suono volutamente, scientemente italiano: mandolini elettrici suonati attraverso Marshall da 200 watt, armonie vivaldiane, il violino, l’armata rossa col turbo, le trombe di Jericho che tiran giù i muri!». Dopo la frecciata ai cantanti languidi, arriva quella a quelli che preferiscono la musica straniera (‘ya talkin’ to me?):
«Marco di dischi lui fa la collezione
E conosce a memoria ogni nuova formazione
E intanto sogna di andare in California
O alle porte del cosmo che stanno su in Germania
E dice: “Qui da noi, in fondo, la musica non è male
Quello che non reggo sono solo le parole”
Ma poi le ritrova ogni volta che va fuori
Dentro ai manifesti o scritte sopra i muri…»
La ‘rebel music’, altri suoni e altro contesto, ma stesso titolo per Marley nello stesso anno, è per Eugenio una scossa, una chiamata a raccolta, un mollare le menate e metterti a lottare. In quel 1976 si sente ovunque, un inno generazionale non necessariamente solo per quelli del Movimento, ma per tutti coloro che credono nel cambiare il sistema: «C’era la voglia di essere universale, era un messaggio filosofico, non politico. ‘Revolution of the mind’, come diceva Marley».
C’è anche reggae, incrociato con politica estera americana quando tornano in studio dopo il pranzo in trattoria: «Hugh era andato a mangiare a casa, credo, e avevo così tanta urgenza di continuare che il basso l’ho preso io, e abbiamo inciso ‘La CIA’», reggae cattivo, brutale:
«La C.I.A. ci spia e non vuole più andare via
la C.I.A. ci spia sotto gli occhi della polizia”.
C’è tutta la politica italiana in quella frase, il risentimento – da parte di uno che l’America control freak degli anni 70 la conosce bene – per le trame oscure, mai chiarite, e le BR sono dietro l’angolo. Ma nell’album ci sono anche tanti momenti di riflessione, di auto-coscienza ad alta voce, di idealismo esistenziale:
«Da piccoli ci hanno insegnato
Che l’erba voglio non cresce nemmeno nel prato
Del re o della regina
E quante volte ci hanno sgridato.
Ma io dico che non c’è niente di male
A desiderare
Basta che quello che si vuole
Lo si sappia anche realizzare…
…E voglio una donna che si faccia rispettare
Per le cose che sa fare
Che mi sia compagna ed amica
Con cui dividere la vita.
E voglio un figlio che mi faccia ricordare
Quanto è importante giocare
Giocare non per perder tempo ma
Giocare per crescere dentro.
E voglio che lui cresca in un paese di pace
Dove si ascolta quel che la gente dice
Dove si sia capaci di capire
Quando è il momento di cambiare.
E voglio essere come tutti gli altri
E delle cose sentirmi una parte»
Ci sono due canzoni acustiche. La prima è ‘Oggi Ho Imparato A Volare’, che è una metafora perfetta, un po’ alla Claudio Rocchi, una visione onirica di come ci si possa innalzare sulle cose, vivere la propria vita con leggerezza e fantasia:
«Oggi ho imparato a volare
E non me ne voglio più dimenticare
Da tutti i miei amici in visita andrò
E alle loro finestre io busserò
E dirò: “Guarda, ho imparato a volare
È facile anche tu potrai imparare
Ti devi solo un poco concentrare
E devi scegliere dove vuoi andare
E se bene sceglierai, allora potrai cambiare
E se non ti disperderai, allora potrai volare»
L’altra, celeberrima, nasce come jingle per Radio Popolare, ed è una dichiarazione d’amore per la radio, in pieno stile country:
«Con la radio si può scrivere
Leggere o cucinare
Non c’è da stare immobili
Seduti lì a guardare
E forse proprio questo
Che me la fa preferire
È che con la radio non si smette di pensare…»
La radio contro la televisione – il raffronto cominciava allora e va avanti ancora adesso – da parte di un dj di radio concettualmente molto particolare. Era l’idea di radio di Per Voi Giovani e Popoff, quella in cui si potesse trasmettere di tutto, perché la musica è una: condividevamo quell’idea, che oggi è un tabù, e sia io che Massimo Villa, Cascone, Eugenio – sia in RAI che poi nelle radio private – portavamo avanti l’idea inevitabile di quando ami tutta la musica, senza barriere di genere. Solo alta e bassa. Che ai tempi meritò anche una menzione di Umberto Eco: «(Finardi) tende a rompere le barriere fra musica impegnata e musica leggera, sa fare accettare un canto popolare da discoteca di etnomusicologia insieme a una bossa nova, passa a un jazz atonale, analizza l’ideologia dei gruppi musicali…».
Ricchezza culturale e immediatezza assoluta:
«…Amo la radio perché arriva dalla gente
Entra nelle case e
Ci parla direttamente
E se una radio è libera
Ma libera veramente
Mi piace anche di più
Perché libera la mente».
Se “Sugo” traccia il solco, “Diesel” nel 1977 lo porta avanti, con la produzione Paolo Tofani e il coinvolgimento di tutti gli Area. Magari un brano epico come ‘Musica Ribelle’ non c’è, ma la qualità complessiva – e anche le performance – sono ancora migliori. Oltre alla musica, è il linguaggio la differenza rispetto a tutto quello che si sente in giro. Eugenio non è per niente ermetico, si espone in prima persona con una sincerità che a volte lascia addirittura a disagio.
È diretto, pure troppo, ha preso alla lettera la lezione di “Blue”, l’album in cui Joni Mitchell è senza pelle, totalmente onesta e trasparente. Ma quelle sono pur sempre solo storie d’amore, magari di nostalgia o di rotture o di tradimenti. Qui, l’unica canzone di amore per una donna è ‘Non È Nel Cuore’, in cui c’è una visione allo stesso tempo pragmatica e idealista dello stare insieme, l’alternanza di gioia e noia, affetto e rispetto, sentimento e fisicità:
«E l’amore
Non è nel cuore
Ma è riconoscersi dall’odore.
E non può esistere l’affetto
Senza un minimo di rispetto.
E siccome non si può farne senza
Devi avere un po’ di pazienza.
Perché l’amore è vivere insieme
L’amore è si volersi bene
Ma l’amore è fatto di gioia
Ma anche di noia».
Le altre canzoni parlano di voglia di cambiare il sistema, le difficoltà di coppia, dell’ingresso e dell’uscita dall’eroina, della rottura del monopolio della radio di Stato, del personale è politico: Eugenio si espone con passione, senza coperture poetiche o di metafora, e di conseguenza, visto il periodo storico, raccoglie insieme molti allori e feroci critiche. Si difende nelle interviste nelle radio, è considerato un «revisionista borghese del PCI» dalla sinistra più estrema, ribatte punto per punto ai concerti quando viene contestato dagli Autonomi.
Una sera, vicino al microfono fischia una pallottola che si pianta nel muro dietro. Non sono tempi facili, fra essere amati o attaccati la differenza è spesso sottile: prendi Max Casacci dei Subsonica: «mi ha confessato che il primo concerto che ha visto a Torino, sfondando i cancelli con Lotta Continua, è stato il mio».
Nel tempo è stato eletto padre putativo, godfather, degli indies, delle band dell’area indipendente, di cui la Cramps è stata caposcuola. Nel box di “40 Anni di Musica Ribelle” Manuel Agnelli degli Afterhours ricorda il suo impatto con i testi: «Le sue canzoni riuscivano a raccontare profondamente e senza filtri ma andavano oltre la comunicazione diretta: parlavano un linguaggio necessario, quello che noi ragazzi stavamo cercando altrove e che invece Eugenio ci diceva di cercare dentro di noi.
Era l’attitudine che per me faceva la differenza, il vero elemento di rottura rispetto all’Italia bigotta e drammaticamente politicizzata di quel periodo, impantanata fra religione, ipocrisia, etica integralista, linguaggio necessariamente indottrinato e pressione sociale enorme. In definitiva un paese privo di sincerità espressiva».
Di sicuro non quella che sta dentro un brano come ‘Scimmia’, col suo impatto che fa sensazione, un brano scomodo, censurato anche delle radio private, un problema grandissimo e tragico di cui era difficile parlare apertamente, soprattutto nel PCI, vedi anche Venditti con ‘Lilly’. Men che meno con la disperata lucidità – molto diversa dal gioco ammiccante di ‘Heroin’ di Lou Reed – di una confessione di prima mano.
Anche perché il brano ha una tensione pazzesca, violenta e vera e sofferta, strappa via la pelle, la band dietro devastante. Quando Odeon, programma Rai1 di Brando Giordani ed Emilio Ravel, fa un servizio su “Diesel” e la mette in onda, cantata dal vivo e con le immagini di Eugenio che si aggira vagando per una Milano notturna, è davvero un colpo allo stomaco:
«Il primo buco l’ho fatto una sera
A casa di un amico, così per provare
E mi ricordo che avevo un po’ di paura
C’è molta violenza in un ago nelle vene.
Ma in un attimo, una fitta di dolore
Un secondo ad aspettare
Poi un’onda dolce di calore
Quasi come nell’amore
E poi mi son lasciato andare
Completamente rilassato
In un benessere artificiale
Come mai avevo provato.
Ma poi a casa me lo son giurato
Che io no, non ci sarei cascato
Io la imparerò ad usare
Mi saprò gestire, non mi farò fregare.
Ma ci continuavo a pensare
Non mi usciva dalla mente
E man mano che passava il tempo
Diventava la cosa più importante.
E poi non me ne frega niente
Di quello che dice la gente
Tanto siamo tutti assuefatti e di cosa
Non importa niente.
E continuavo ad aumentare
Mi facevo quasi tutte le sere
E appena fatto mi scoprivo a temere
Di non riuscirne più a trovare.
E poi ore, ore e ore
Fuori da una farmacia ad aspettare
E ‘sto stronzo del dottore
Non me la vuole dare.
Ma a lui che cazzo gliene frega
Ah, ma un giorno me la paga
Un giorno passo con un sasso
E gli faccio la vetrina nuova.
…E dai, prestami una fiala
È da sei ore che mi sbatto
Se non mi faccio uno stenolo
Stasera lo sai, divento matto.
Poi per due anni non ho quasi fatto altro
Non ho suonato, non ho fatto l’amore
Tiravo il tempo da un buco all’altro
In giro a sbattermi o in casa a dormire.
Ma una mattina mi son chiesto:
“Come andrà a finire?
Andare avanti, finire in galera
Magari anche morire.
E poi così non può durare
Sta diventando quasi come un lavoro
Otto ore in giro a sbattermi
Ma oramai sballo poco anche con l'”ero”.
E poi sto perdendo tempo
E sprecando quello che ho dentro
Io così non sto crescendo
Mi brucio, ma mi sto spegnendo.
E smettere non è poi così difficile
Non fa neanche tanto male
Basta un po’ di cura e di comprensione
Magari un po’ di metadone.
E fuori c’è tutto un mondo da scoprire
Sul quale si può intervenire
E se tieni duro sei mesi vedrai
Che poi non ci ripenserai quasi mai»
C’è voluto un bel coraggio: «Coraggio, o incoscienza, scegli tu quale. Ma anche una certa onestà. Il motto della comunità che ho frequentato era ‘honesty is the key’, la chiave è l’onestà. Se io sono caduto in quasi tutte le trappole ma ne sono anche uscito è per una estrema onestà intellettuale che purtroppo ho. ‘Scimmia’ la canto raramente dal vivo, ma mi sconvolge ancora adesso. Erano canzoni che equivalevano a una sessione di analisi, di presa di consapevolezza».
Non tutti i testi arrivano alla crudezza di ‘Scimmia’. Molte sono sì sessioni di autoanalisi, ma più giovanile, come una autocoscienza ad alta voce, cantata, per darsi forza: «Sì, lezioncine a me stesso, cosa per la quale ero molto criticato, delle predichine, paraboline. Però non volevo impartire lezioni, erano sorta di ‘memo to self’, messaggi a me stesso. Quando riguardo la mia produzione è una confessione abbastanza profonda, una lunga seduta di psicanalisi»
In “Diesel”, come negli altri album, ce ne sono diverse. Aldilà delle rime baciate, hanno sempre dentro in maniera molto semplice concetti giusti, come in ‘Scuola’:
«Io volevo sapere la vera storia della gente
Come si fa a vivere cosa serve veramente
Perché l’unica cosa che la scuola dovrebbe fare è:
Insegnare ad imparare…
..Perciò va’ pure a scuola, per non far scoppiar casini
Studia matematica, ma comprati un violino
Impara a lavorare il legno, ad aggiustar ciò che si rompe
Che non si sa mai, nella vita un talento serve sempre».
Oppure ‘Non Diventare Grande Mai’, che vale da fratello più grande, ma anche da padre a figlio:
«Non diventare grande mai
Non serve a niente, sai
Continua a crescere più che puoi
Ma non fermarti mai.
E continua a giocare, a sognare, a lottare
Non t’accontentare di seguire
Le stanche regole del branco
Ma continua a scegliere in ogni momento»
Se vogliamo uscire dalla psicanalisi ed entrare nella narrazione, ‘Diesel’ è un racconto sintetico e verace di quella che è la vita on the road, sul furgone diesel che ti porta in giro per l’Italia, metafora di propulsione, di dinamismo: la storia di come sull’autostrada si incrociano camion di frutta che vanno dal Sud al Nord, orchestrine di liscio e furgoni di giovani rockers che si danno il cambio alla guida, quando il viaggio e lungo e si deve arrivare. Il tutto con un funk delizioso, davvero propulsivo, il piano elettrico di Patrizio Fariselli che sterza e accelera:
«E diesel è il ritmo della vita
È la nuova pulsazione per la nuova situazione
E diesel è il ritmo delle cose
È la giusta propulsione per la mia generazione
È la nuova pulsazione per la giusta situazione»
Quando arriva il ’78 e “Blitz”, c’è un’apertura su altri temi rispetto al passato militante. L’utopia della rivoluzione gioiosa è finita male. Il Movimento si è fratturato in fazioni in lotta, gli Autonomi hanno costretto a chiudere le frontiere alla musica, ogni concerto un processo, e le BR sparso sangue. “Non se ne poteva più, e non ne poteva più neanch’io”. Anche lo scenario intorno a Eugenio cambia: Calloni e Bullen vanno a fare i superturnisti (Venditti, Battisti), il miglior amico Camerini è diventato solista e competitor, il gruppo di lavoro e di amici si è disperso, tutto si sta scomponendo e ricomponendo. In ‘Cuba’ scrive:
«…Sempre più spesso ci si trova a dubitare
Se in questi anni non abbiamo fatto altro che sognare
E che viviamo un momento di riflusso
E ci sembra ci stia cadendo il mondo addosso…».
Sottintende un momento di pausa, di riflessione, ma quando tre mesi dopo esce in edicola un Panorama pre-balneare, con in copertina il titolo Il Riflusso, il gioco è fatto. La parola entra nel linguaggio comune, è chiaro che è partita un’onda di ritorno, anche se i nostri anni bui non finiranno così presto.
Trova una nuova eccellente band, i Crisalide, dischi e concerti sono sempre a livello, come lo sarà orgogliosamente per tutta la carriera. Ma è lo spirito che è cambiato. Riflessione, riflusso, si assomigliano pure, sono solo stati della mente. Certezze ideologiche non ce ne sono più.
Eugenio scrive quella che in fondo è una favola, ‘Extraterrestre’. Rimane a oggi la sua canzone più streammata e più popolare, quella che conosce anche mio figlio tuttotrap di 15 anni. Aldilà della melodia dolce ed evocativa, è una parabola poetica davvero universale, questa volta: non più i due ragazzi che devono mettersi a lottare di ‘Musica Ribelle’, ma un solitario con lo sguardo al cielo, in cerca di una fuga metaforica che lo riporterà nella realtà. Personalmente, per il ragazzo dell’abbaino sarà profeticamente una favola che si avvera, da vivere a tutti gli effetti come una evoluzione spirituale interiore. C’è un bel salto. Dal militante al mistico.
«C’era un tipo che viveva in un abbaino
Per avere il cielo sempre vicino
Voleva passare sulla vita come un aeroplano
Perché a lui non importava niente
Di quello che faceva la gente
Solo una cosa per lui era importante
E si esercitava continuamente
Per sviluppare quel talento latente
Che è nascosto tra le pieghe della mente
E la notte sdraiato sul letto, guardando le stelle
Dalla finestra nel tetto con un messaggio
Voleva prendere contatto, diceva:
“Extraterrestre, portami via
Voglio una stella che sia tutta mia
Extraterrestre, vienimi a pigliare
Voglio un pianeta su cui ricominciare.
Una notte il suo messaggio fu ricevuto
Ed in un istante è stato trasportato
Senza dolore su un pianeta sconosciuto
Cielo un po’ più viola del normale
Un po’ più caldo il sole, ma nell’aria un buon sapore
È terra da esplorare, e dopo la terra il mare
Un pianeta intero con cui giocare
E lentamente la consapevolezza
Mista ad una dolce sicurezza
“L’universo è la mia fortezza!”
Ma dopo un po’ di tempo la sua sicurezza
Comincia a dare segni di incertezza
Si sente crescere dentro l’amarezza
Perché adesso che il suo scopo è stato realizzato
Si sente ancora vuoto
Si accorge che in lui niente è cambiato.
Che le sue paure non se ne sono andate
Anzi che semmai sono aumentate
Dalla solitudine amplificate
E adesso passa la vita a cercare
Ancora di comunicare
Con qualcuno che lo possa far tornare, dice:
“Extraterrestre, portami via
Voglio tornare indietro a casa mia
Extraterrestre, vienimi a cercare
Voglio tornare per ricominciare!»
Con ‘”Roccando Rollando” nel 1979 si chiude il ciclo-Cramps e si chiude anche un mondo. La morte di Demetrio Stratos, per Eugenio, ne è il sigillo. Dopo, si andrà in territori inesplorati, arriverà una famiglia e una prima figlia sfortunata a cui dedicherà un gioiello come ‘Un Amore Diverso’. Siamo ormai negli anni 80, e Finardi dovrà cercare altre identità: «La vera ribellione è stata ribellarsi alla musica ribelle. Sono andato a cantare ’15 Bambini’ a Discoring con un giubbotto rosa shocking. Avrei potuto continuare a vestirmi sempre uguale come Guccini, ma ho voluto uccidere l’immagine che avevano di me., e questo atteggiamento l’ho sempre proseguito, ribellandomi all’immagine, alla gabbia che di volta in volta mi mettevano addosso. Piccoli suicidi strategici. Uccidere quel Finardi perché Finardi potesse essere libero».
Quaranta anni dopo, cresciuto musicalmente e personalmente, vero esploratore di tutti i generi – dal fado al rembetico, dal blues alla classica – Eugenio Finardi è rimasto sincero in modo disarmante, onesto e consapevole, indignato più di prima, sempre voglioso di cambiare il mondo. Ribelle con una causa. E, si sa, puoi levare il ribelle dalla causa, ma non puoi levare la causa dal ribelle.