“The Velvet Underground & Nico” è un, anzi IL, gigantesco paradosso del rock’n’roll. Il paradosso più glorioso, contraddittorio, influente e visionario che ci sia probabilmente mai stato. Un paradosso complesso, non facile da decifrare all’uscita: un prodotto dell’underground newyorkese degli anni 60, imbevuto di ambiente artistico e di sperimentazione musicale, di brutale innovazione letteraria e di eclettismo autorale di totale insuccesso.
Un album, e una band, passati ai tempi quasi totalmente inosservati, anzi, rigettati con fastidio o indifferenza anche dalla cultura rock del periodo (eppure siamo nel momento di esplosione creativa degli anni 60), per non parlare delle classifiche: questo album arriverà al 171° posto in classifica, il secondo al 199°, gli altri neanche ci entreranno. Le poche recensioni di “V.U.&N” nel 1967 sono più dovute al nome di Warhol sulla copertina e alla sua stilizzazione della banana gialla che alla band che contiene. I loro show dal vivo, dove il suono era ancora più radicale e intransigente, estremo, condivisi da poca gente e ancor meno applausi.
Eppure… eppure quel primo album di ormai 55 anni fa, è considerato assolutamente fondamentale per tutto il rock venuto dopo, molte riviste hanno dovuto rifare le loro liste e riscrivere a posteriori le loro recensioni – Pitchfork lo considera addirittura il miglior album degli anni 60 – perché nessuno o quasi ai tempi ne aveva capito la primogenitura, il big bang sonoro e testuale che avrebbe riversato le sue onde d’urto sul rock, sulla new wave, sul punk, sull’indie, sull’avanguardia, sull’art rock, sul post-rock.
Un disco di contrasti acuti fra il suono nuovo e terrificante costruito dai quattro VU e la dolcezza di alcuni brani di atmosfera cantautorale, fra il glamour da attrice/modella di una delle donne più belle di quegli anni, la splendida e algida Nico, e il mondo sotterraneo e da bassifondi svelato con linguaggio da strada da Lou Reed, il tutto ammantato – e imbustato – dal fascino supertrendy dell’artista top della pop art del momento, Andy Warhol, che li ha concepiti e guidati (tradotto: lasciati liberi) come se si trattasse di una sua opera d’arte.
In una intervista al mensile Uncut dello scorso maggio, Cale ha ribadito: «I VU sono nati da personalità e confluenze diverse, è questo che da dato fuoco alle fornaci. È importante capirlo, e ancor di più comprendere la natura organica della sua onestà. Eravamo anarchici, ma con un cuore. Tracciare il nostro cammino distorto era più importante che diventare la prossima grande cosa. Senza la competizione nata dal nostro desiderio feroce di piegare e in ultimo rompere il rock’n’roll saremmo stati solo un’altra band degli anni 60».
A volte il tempo, più che essere gentiluomo, è un bastardo imprevedibile: cambia così tanto che quello che sembrava folle, dissacrante, esagerato, inaccettabile, è destinato a sembrare, se non proprio normale, accettabile. Artistico. Parte di noi, come uno specchio, che riflette quello che siamo diventati: «Sarò il tuo specchio, rifletterò quello che sei, nel caso tu non lo sappia».
Allora, il paradosso si svela per quello che è: un’anticipazione di quello che sarà. Che sia una buona o cattiva notizia, quello lo lascio alla considerazione, estetica e morale, oltreché letteraria, di ognuno di noi.
Se l’arte migliore deriva dai contrasti, dalle frizioni, dalle giustapposizioni estreme, dalle intuizioni impensabili, allora quest’album ne è pieno, quasi una vetrina. Cominciamo dai protagonisti, quel 4+1 nel quale le personalità e le ambizioni sono tutte spinte all’eccesso. Il fulcro sono, ovviamente, Lou Reed e John Cale.
Lou Reed viene da Long Island, non lontana ma neanche precisamente New York. Figlio di una tipica famiglia media americana, nel ’59 a 17 anni viene in qualche modo tradito dai suoi genitori quando, preoccupati per le sue presunte tendenze omosessuali, lo accompagnano da un dottore per una serie di elettroshock.
Lui, che ama scrivere, per settimane non ricorda nulla, deve ogni volta ricominciare da capo. Vorrebbe fare lo scrittore, o forse l’autore di canzoni. Ama il r’n’r degli anni 50, le pop songs semplici, emotive. È ispirato dai poeti maudit francesi, Baudelaire e Rimbaud, dallo scrittore del mistero americano Edgar Allan Poe, ha studiato la forma breve, Chandler in particolare. Dà credito al suo amato professore alla Syracuse University, il poeta Delmore Schwartz, di avergli spiegato come «con il linguaggio più semplice e succinto immaginabile puoi arrivare a vette mozzafiato», e che la scrittura non sia un mestiere ma un compito sacro.
Quando incontrerà Andy Warhol, il loro protegèe gli ribadirà un concetto simile, di essere coraggioso: «Sii certo di lasciare le parole dure al loro posto, tieni tutto ruvido, non lasciare che ti addomestichino». Reed sa bene che il r’n’r è fatto e venduto per gli adolescenti, lui vuole farlo per adulti, come passare da un romanzo d’avventura a uno esistenzialista. La prima volta che prova l’eroina è proprio all’Università, e quando trova poi un impiego come autore di canzonette commerciali alla Pickwick Records («una Carole King dei poveri») e gli chiedono di scrivere canzoni sul surf, lui ne porta una sull’eroina: «mai, mai più», è il commento del titolare.
La versione che comparirà sul primo album contiene l’essenza della capacità dinamica dei V.U., dolcezza e violenza sonica insieme, e si snoda come un film: inizia come una folk song d’amore, la chitarra jangling che può ricordare forse i Byrds, forse i Rokes di «una strana espressione nei tuoi occhi»… «non so dove sto andando», poveretto pensi per un attimo, solo che la strana espressione negli occhi è un’altra, e arriva in un attimo, «perché cercherò il Regno, se ci riesco..».
È cambiato tutto, la pennata sulla chitarra accelera, Maureen comincia a picchiare su quello che più che un rullante sembra una scatola di legno…«perché mi fa sentire che sono un uomo»…aah, è una canzone macho allora…«quando mi infilo un ago nella vena»…oh oh, è qualcos’altro …«e ti dico, le cose non sono più le stesse, quando il rush comincia a correre, e mi sento come il figlio di Gesù…», ma poi rallenta, si placa, quasi si ferma «e immagino che proprio non lo so, proprio non lo so…».
A quel punto è tutto chiaro: se il rock psichedelico era il tentativo di replicare in musica le esperienze del viaggio lisergico, ‘Heroin’ è quello di far sentire com’è il rush, la sensazione flashosa del buco e la calma che ne segue. Appena placata la prima corsa, Reed riattacca, lentamente, «Ho preso la grande decisione, cercherò di annullare la mia vita»…e arriva la seconda ondata…«Perché quando il sangue comincia a scorrere, quando viene sparata su per il collo del tossico, quando sto convergendo sulla morte»… il ritmo è tornato forsennato, le pennate sulla elettrica come schiaffi da cortocircuito… «E non potete aiutarmi, non voi gente, o voi ragazze dolci con le vostre dolci parole…potete andare tutti a farvi un giro»… e rallenta ancora…«E immagino che non lo so, immagino che proprio non lo so…».
Tutto rallenta, riparte piano con una visione: «Mi piacerebbe esser nato mille anni fa, fare vela su quei mari oscuri, su un grande clipper, andando da una landa a un’altra, con un cappello e un uniforme da marinaio…via dalla grande città dove un uomo non può essere libero, da tutti i mali di questa città, e dai suoi, e da quelli intorno…E mi sa che proprio non so»…
E qui c’è la dichiarazione, di amore e di morte, quella che scandalizza, quella che farà censurare il brano e l’album nella maggior parte delle stazioni radio, quella che Lou si porterà dietro per tutto il resto della sua vita artistica, mentre la viola di Cale entra, ancor intonata, come a lenire il passaggio: «Eroina, sii la mia morte, eroina è la mia moglie e la mia vita…Perché la strada della mia vena porta al centro della mia testa, e allora sto meglio che esser morto…».
E qui parte il pandemonio, la quarta ondata, ed è quella decisiva, quella finale. Maureen batte sempre più forte, schreech sfrenati della chitarra, drone impazzito della viola, distorsioni ed effetti di apocalisse, come diceva Lou, «la musica suona esattamente come quello che le parole dicono»: «Perché quando l’ero comincia a fluire, non mi importa più di nulla, di tutti i Jim-Jim di questa città, di tutti i politici che fanno strani rumori, di tutti quelli che buttano giù tutti gli altri, di tutti i cadaveri in pila…quando l’eroina è nel sangue, e quel sangue è nella testa…allora grazie a Dio sto bene come fossi morto, e grazie al vostro Dio non sono più consapevole. E grazie a Dio non mi importa più…», e mentre tutto si placa, definitivamente, e sta per tornare la quiete iniziale… «E immagino che proprio non so».
C’è una congerie di emozioni nel passaggio dalla tenerezza quasi innocente delle prime due righe al resto della canzone, sette minuti in cui è a tratti arrabbiato, disilluso, rassegnato, sfrontatamente superiore. Confuso, incerto, come quel «I guess that I just don’t know…».
Di fatto sta che quella canzone, che fotografa un’epoca e una droga che in Italia arriverà qualche anno dopo e farà molte vittime (e ancora ne fa, in tutto il mondo), rimane un documento poeticamente agghiacciante. Crudo ma vero, la stessa freddezza chirurgica con cui William Burroughs, in Junkie e Naked Lunch, aveva narrato qualche anno prima le sue esperienze con le droghe e la dissolutezza. Una narrazione che immortala senza compiacimenti né morale, quasi con distacco, la vita del junkie metropolitano.
John Cale, gallese, anche lui classe ‘42, è cresciuto in una famiglia musicale ed è arrivato negli Stati Uniti nel ’63 con una borsa di studio intitolata al conduttore di musica classica Leonard Bernstein per partecipare a dei corsi di musica d’avanguardia. Ma dal Connecticut si trasferisce subito a New York: suona con John Cage, Cornelius Cardrew, partecipa ai corsi di La Monte Young e si unisce al suo ensemble Theatre of Eternal Music, il cosiddetto Dream Theatre. Lo strumento che ha cominciato a studiare al Goldsmith College a Londra, la viola, una volta elettrificata diventerà il suo strumento simbolo, anche se è un multi-strumentista che nei VU suona anche il basso e le tastiere. È un musicista eccellente, capace di suonare partiture Wagneriane, ma il suo principale campo di sperimentazione è nell’ambito della musica dronica.
Il drone è l’effetto, armonico o monotonico, che si ottiene quando si suona continuamente o ripetutamente una nota o un accordo. Il suo uso sistematico ha origine nell’Asia meridionale, viene importato in Europa successivamente, dove diventa popolare, per esempio, nell’uso delle cornamuse. Cale lo applica alla viola elettrificata nel suo lavoro con Young, e quando alla Pickwick incontra Reed, scopre che ha una visione sperimentale molto simile, anche lui a volte accorda le corde della chitarra su una sola nota per ottenere quell’effetto: ad esempio, l’ha usato in un brano, ‘The Ostrich’ (una presa in giro del twist di gran moda) inciso con una sua band giovanile, i Primitives.
Diventerà una delle caratteristiche fondanti della musica dei V.U., è l’incontro fra r’n’r e musica d’avanguardia. Entrambi vogliono spostare avanti i limiti di quello che è possibile musicalmente, sensorialmente. Entrambi conoscono e amano il rythm’n’blues e il doo wop delle origini, il rock, Cale ha portato dall’Inghilterra gli album degli Small Faces, Who, Kinks introvabili negli Stati Uniti. Li studiano, perché sono i primi dischi in cui il noise, il rumore, il feedback e le distorsioni diventano suono: «ci dobbiamo sbrigare, Lou, perché ci stanno raggiungendo». Attraverso i suoi contatti, nel ’65 consegna a Marianne Faithfull un primo demo acustico dei V.U., sperando nell’attenzione di Mick Jagger, ma non ne esce nulla. Non è ancora il momento, sembra un destino nel destino.
Sterling Morrison è un compagno di Reed alla Syracuse University. Suona la chitarra solista, o la ritmica per consentire a Reed di creare i suoi pattern dissonanti, ma quando serve passa al basso al posto di Cale. Maureen Tucker è la sorellina di un amico di Sterling. Ha una strana batteria, senza piatti, solo rullante e tom tom e cassa orizzontale, e la suona in piedi, spesso con i mazzuoli invece delle bacchette, e non solo perché è piccolina: caschetto di capelli corti, sembra un po’ un monello, è il lato morbido, pacificatore della band, ma il suo stile ossessivo, modellato sui ritmi di Bo Diddley e del percussionista nigeriano Babatunde Olatunji, dà alla ritmica quel pattern continuo, primitivo, che si sposa in pieno con il suono dronico e ossessivo della viola di Cale e della chitarra di Reed.
In realtà, è arrivata dopo, vincendo anche le resistenze di Cale, ‘che ci fa una ragazza in mezzo a noi?’ (non sa ancora che ne arriverà un’altra, anche se un po’ diversa…). Succede quando il primo batterista, Angus MacLise, che vive e ragiona duro e puro come un artista senza compromessi, lascia la band quando le viene offerto il primo ingaggio, 75$ per suonare alla Summit School nel New Jersey. Pensa che l’arte si faccia per l’arte, affanculo tutto il resto. Non è la sola stranezza che ha portato nella band: suona anche come gli pare, viene alle prove se gli va, arriva in ritardo ai concerti, una volta forse per farsi perdonare la mezz’ora di ritardo suona -da solo, con spirito invasato- per mezz’ora dopo che gli altri se ne sono andati, di fronte a un pubblico sconcertato. È troppo anche per i V.U..
Ha però il grande merito dell’intuizione iniziale del nome: è lui che lo sceglie, quando un amico di Cale, Tony Conrad, mostra loro un libro trovato per terra nella Bowery che parla della subcultura sessuale degli anni 60, The Velvet Underground: è un’analisi di un giornalista, Michael Leigh, che nel 1963 fa un reportage del mondo delle deviazioni sessuali fra adulti consenzienti. Sono interviste e dichiarazioni di persone coinvolte in pratiche sadomaso, omosessuali, scambiste, orge, tutto l’assortimento. La tesi è quella che si sta spostando il senso della morale e delle attitudini sessuali, e lo scopo è quello di accettare queste cose come normali in una società che muta. Giro di boa, secondo l’autore, è la rivoluzione sessuale, dovuta in larga parte alla disponibilità di contraccettivi. Sulla copertina uno stivale con tacco a stiletto, frustino, maschera, tutto di cuoio.
A Reed piace molto perché suona come underground in senso cinematografico, e poi lui ha già scritto una canzone ispirata al libro del Marchese Sacher-Masoch, ‘Venus In Furs’, un romanzo breve del barone Leopold Von Sacher-Masoch del 1870, che tratta di dominanza femminile e sadomasochismo. Parte da un sogno in cui il narratore parla con una Venere in pelliccia, e lo riferisce a un amico, Severin, che gli consiglia di leggere un manoscritto, Memorie Di Un Uomo Soprasensuale, nel quale si racconta l’esperienza di un uomo, anche lui Severin di nome, il quale si sottomette alla donna che ama, Wanda. Dopo umiliazioni di vario tipo, la crisi arriva quando è Wanda a volersi sottomettere a un altro, e lui capisce che quel tipo di donna è una nemica dell’uomo, una che sarà schiava o dominatrice, ma mai compagna.
La ‘Venere in pelliccia’ è uno dei brani centrali dell’album. Reed e Cale hanno intuito come trasformare la loro musica, o almeno parte di essa, in qualcosa che possa sonorizzare altri mondi, atmosfere sconosciute nel mondo da teenager del r’n’r: musica sadomaso, una storia di sottomissione e perdizione sessuale in salsa dronica, da fumeria d’oppio. Il tempo lento, la viola che crea un tappeto di una sola nota, come un loop infinito:
“Lucidi, lucidi stivali di cuoio
La donna bambina con la frusta ti aspetta nel buio
Viene a comando, il tuo servo, non dimenticarlo
Colpisci, padrona cara, e cura il suo cuore.
Peccati vellutati di fantasie da lampione
Rincorri i costumi che lei indosserà
La pelliccia di ermellino adorna la sua imperiosità
Severin, Severin ti aspetta là.
Lecca il perizoma, la cinta che ti aspetta
Colpisci, cara padrona, e cura il suo cuore.
Severin, Severin, parla con un fil di voce
Severin, giù in ginocchio
Assaggia la frusta, un amore dato non a cuor leggero
Assaggia la frusta, e sanguina per me.
Sono stanco, sono sfinito
Potrei dormire per mille anni
Risvegliato da mille sogni
Colori diversi fatti di lacrime…”
La circolarità della viola, quel tamburino che batte su ogni quarto, sempre lo stesso accompagnamento, solo il cambiare lento della melodia sulla strofa ’millenaria’, la viola che si raddoppia e si triplica su altre note droniche, Lou che scandisce le parole senza nessuna emozione, come fosse un reading teatrale off, lascia tutto in una sospensione temporale. Il rock perde la sua innocenza, tocca temi mai toccati, certamente non con questa esplicitazione. Mary Woronow, danzatrice nel Plastic Exploding Inevitable e poi attrice, ai tempi descrisse così il mondo che ruotava intorno, in contrapposizione alla solare California: «Lou amava i travestiti, lo humour, l’eccentricità, la perversione. ‘Heroin’ è la risposta a ‘The End’ dei Doors. Gli hippies erano tutti colorati, noi in bianco e nero. Là c’era il free love, noi avevamo il sadomasochismo».
L’incontro nel tardo ’65 con Warhol è la scintilla che accende la miccia. Il figlio di due modesti immigrati Slovacchi si è laureato in arte pubblicitaria a Pittsburg e trasferitosi a NYC ha subito trovato lavoro presso Vogue e Glamour. Artista eclettico (grafico, illustratore, pittore), nel giro di una decina d’anni è diventato una star nel mondo dell’arte contemporanea.
Nel 1962, ha esposto le serigrafie dei suoi famosi barattoli della Campbell’s Soup. È l’inizio di una serie di rappresentazioni di oggetti iconici americani di massa, come i fustini di detersivo o la Coca-Cola («questo è un Paese dove il Presidente, o un barbone per strada, hanno accesso e bevono la stessa identica cosa», benvenuti al consumismo di massa), spesso rappresentati serialmente come si trovano nei supermercati. Seguiranno poi i ritratti di personaggi iconici americani e non, da Marylin a Mao, da JackieO a Elvis, da Jagger all’avvocato Agnelli, che gli daranno una visibilità internazionale anche nel mondo del jet set. Nasce la pop art. Sta applicando la sua esperienza di comunicazione e di visuals pubblicitari, e sta mettendo in discussione un principio fino ad allora sacro, cosa sia l’arte.
È su quest’onda che si trova in sintonia con il mondo artistico che agita New York, di quello che gravita intorno al Chelsea Hotel, dallo sciamano culturale Harry Smith ai molti registi e apprendisti stregoni che popolano la scena underground newyorkese: la loro idea è di abbattere la società dei consumi, di creare un mondo con regole nuove, la sua quella di fare i soldi sbeffeggiandola e cogliendone la convenzionalità. Funziona.
Allo stesso tempo, comincia a sperimentare con la Polaroid e la macchina da presa, prima con dei lungometraggi su azioni banali della vita quotidiana, o sull’immobilità, il più famoso dei quali sono le otto ore di ripresa dell’Empire State Building. Warhol dà fastidio e insieme è invidiato dal mondo artistico per la sua capacità di manipolare i media e di usare l’underground per scopi commerciali, mantenendo rapporti con l’establishment che altri rifuggono. In cerca di fondi per mantenere le attività, un giorno pubblica sul Village Voice un annuncio: «Firmerò col mio nome abbigliamento, sigarette, registratori, dischi di r’n’r, film cibi, fruste, soldi».
È una sorta di pifferaio magico che porta in giro e introduce a tutti le cosiddette Warhol Superstars, una corte in perenne movimento fra Max’s Kansas City e la Factory: intellettuali e commediografi, drag queen e bohemienne, registi e celebrità, gay e transessuali, gente comune e ricche ereditiere come Edie Sedgwick, la femme fatale che sarà cantata da una sua pari, Nico.
Cale racconta che nella giornata c’era un pre- e un post-Edie, nel senso che quando arrivava lei portava tutti a cena e partiva la notte. Sono coloro che interpreteranno i suoi (o i loro) film. In pratica, quel sottomondo “on the wild side” che Lou Reed porterà più di un lustro dopo al #1 senza censure, altro paradosso, visti i contenuti.
Nel ’66, in cerca di un gruppo da happening rituali, musica strana che faccia da colonna sonora per allestire uno show per una discoteca, la film maker Barbara Rubin gli consiglia i V.U., che diventano una parte integrante della Factory warholiana, un collettivo artistico, una fabbrica di eccentricità ma anche di arte a 360 gradi. Cale ricorda come tutti i giorni facessero un pellegrinaggio da SoHo, dove vivevano in un appartamento dove erano state ritagliate centinaia di paia di occhi da varie riviste e incollate sui muri, fino alla Factory su Union Square: «Cercavamo di fare le prove, sempre in bilico fra improvvisare e dare una struttura a quello che suonavamo. Il contesto era quello che era, arte cruda in ogni possibile forma, ci piaceva lavorare su tutto. Per quanto prendessimo seriamente la musica, spesso eravamo dirottati altrove da tutto quello che succedeva».
Warhol affida loro la colonna sonora di uno show che porterà in molte città degli Stati Uniti, l’Exploding Plastic Inevitable, una performance multidisciplinare, diremmo oggi: musica, danza, lettura, luci psichedeliche e stroboscopiche (da qui l’abitudine di indossare gli occhiali da sole sul palco), proiezioni di film di Warhol stesso.
Insiste anche che i V.U. prendano con loro una bionda modella tedesca, statuaria e glacialmente fascinosa, che praticamente non ha mai cantato. Christa Paffgen, in arte Nico, dal punto di vista di Warhol è il tocco di glamour che manca agli altri, e per quanto bizzarro l’accostamento, ha una sua logica. La sua presenza scenica – ‘metà dea, metà regina di ghiaccio’ – è molto forte, la sua voce un po’ cavernosa e senza espressione è il contraltare femminile della stessa voce, distaccata e senza coinvolgimento emozionale, di Lou Reed.
Nata nel ’38 a Colonia nella Germania nazista, padre ucciso nella Wermacht o ricoverato e morto in un ospedale psichiatrico per lo shock della guerra, passa i primi anni di vita sotto le bombe inglesi, e con la mamma alla fine della guerra riesce a fuggire a Berlino Ovest. Da lì il percorso è veloce: modista, a 16 anni modella prima a Berlino e poi a Parigi per le riviste dell’epoca, da Vogue a Elle, attrice. Fa colpo su Fellini, che nella Dolce Vita le affida la parte di una attrice che segue Mastroianni fuori città a una festa piena di aristocratici e nullafacenti, attraversandola col suo tipico gelido e ironico distacco. Ha una storia con l’idolo del periodo, “l’uomo più bello del mondo”, Alain Delon, da cui un figlio mai riconosciuto dal padre, Ari, che sarà cresciuto dalla nonna paterna col cognome del marito, Boulogne. Viaggia, conosce prima Brian Jones, poi Dylan, e infine approda alla Factory di Warhol dove spicca, per altezza e bellezza, nella sua corte dei miracoli.
Warhol diventa loro manager e produttore discografico, e le session del disco iniziano nel 1966. Naturalmente non sa nulla di musica, ma svolge due funzioni fondamentali: copre le spese e con il suo prestigio evita che i lupi del music business se li mangino.
«Ha semplicemente reso possibile», ha detto Lou, «che potessimo essere noi stessi e andare avanti dritti perché lui era Andy Warhol. In un certo senso, l’ha davvero prodotto, facendo da ombrello a tutti gli attacchi quando non eravamo abbastanza grandi da essere lasciati in pace. Di conseguenza, facevamo quello che facevamo sempre e nessuno ci fermava perché lui era il produttore. Naturalmente non sapeva nulla di produzione discografica, ma non era necessario. Stava solo seduto lì e faceva ‘”Oooh, è fantastico!”, e l’ingegnere del suono rispondeva “Yeah! Hai ragione! È fantastico, no?”».
Il primo acetato viene portato alla CBS, che lo rifiuta. Li accolgono alla Verve, dove la produzione viene assegnata a Tom Wilson, che aveva già prodotto il jazz d’avanguardia di Sun Ra e Cecil Taylor, Dylan, Simon&Garfunkel. In realtà il più è fatto, intervenire non avrebbe molto senso, però chiede almeno un singolo, qualcosa che possa passare in radio. Lou allora scrive e canta, con voce quasi sussurrata, come un cantautore acustico, una sognante ballata, arricchita dalla celeste di Cale, ‘Sunday Morning’:
“Domenica mattina, cade la pioggia
Ruba un lenzuolo, condividi un po’ di pelle
Le nuvole ci stanno avvolgendo in momenti indimenticabili
Ti adatti per entrare nella forma in cui sono io
Ma le cose diventano folli
Vivere la vita diventa difficile
Me ne andrei volentieri per la mia strada, se sapessi
Che un giorno mi riporterebbe da te”
Dopo questa intro deliziosa e totalmente fuorviante, arriva il resto. Lou Reed scrive brani che accendono la luce su un mondo che nessuno vuole vedere, tantomeno raccontare, neanche nel rock della metà degli anni ’60 (ribelle ma pur sempre regolare) e cioè l’underworld, il mondo di sotto: urbano, disperato, depravato, ma anche incredibile melting pot di sentimenti, emozioni, ispirazione per racconti quasi sempre brutali.
Si parte subito con ‘I’m waiting for my man’, 26$ in my hand’, ritmo ossessivo, batteria e chitarre battenti su ognuno dei quattro quarti, ogni corda accordata in Re, il suo riconoscibilissimo cantato-parlato, accento nasale newyorkese, il tono come se stesse parlando di una cosa qualsiasi, tipo andare al supermercato:
“Sto aspettando il mio uomo, 26 dollari in mano
Sù per Lexington, fino alla 125esima
Mi sento malato e sporco, più morto che vivo
Sto aspettando il mio uomo.
Hey, ragazzo bianco, che ci fai qui uptown?
Hey, ragazzo bianco, corri dietro alle nostre donne?
Mi perdoni signore, nulla di più lontano dalle mie intenzioni
Cerco solo un caro, caro amico mio
Sto aspettando il mio uomo.
Eccolo che arriva, tutto vestito di nero
Scarpe da PR e un grande cappello di paglia
Non è mai in anticipo, è sempre in ritardo
La prima cosa che impari è che devi aspettare.
Su per un brownstone, tre piani di scale
Tutti ti hanno visto, ma non importa a nessuno
Lui c’ha la roba, ti dà quel sapore dolce
E poi devi scappare perché non hai tempo da perdere.
Sto aspettando il mio uomo…”.
A Nico sono riservate le canzoni più tradizionali, che lei rende assolutamente anomale con quel suo tono un po’ dark, teutonico. Gioco sublime quello di affidarle la canzone che Lou scrive per Edie Sedgwick, la bellissima ereditiera che praticamente mantiene il circolo, che spera di diventare un’attrice hollywoodiana e per la quale tutti perdono la testa, che perderà la testa per Dylan. Due femme fatales (chiedere di Nico a Leonard Cohen), così diverse, così bionde, così destinate a una fine tragica:
“Eccola che arriva, meglio che guardi le tue mosse
Ti spezzerà il cuore in due, è vero
Non è difficile da capire, guarda i suoi finti occhi colorati
Ti porta su per buttarti giù.
Sei solo una recensione nella sua agenda
Numero trentasette, dai un’occhiata
Ti farà diventare pazzo, è vero.
Ragazzino, lei viene dalla strada
Prima di iniziare, sei già battuto
Ti sorriderà solo per farti corrucciare
Che clown.
Perché tutti sanno che è una femme fatale
Le cose che fa per piacere (è una femme fatale)
È solo una presa in giro (è una femme fatale)
Il modo in cui cammina
Ascolta come parla…”
La seconda è quella che scrive Lou, questa volta per lei, durante la loro breve storia, ‘I’ll Be Your Mirror’. Canzone d’amore melodiosa e delicata, una guida affettuosa per la ragazza bellissima che non si sente tale. Dimostra che da una parte Reed sa scrivere sontuose canzoni d’amore pop, e dall’altra che per quanto la voce di Nico non sia quanto di più commerciale esista sulla scena, è davvero strano che di una canzone così (come di ‘Sunday Morning’, del resto) non si sia accorto nessuno capace di portarla in classifica, con la penuria di autori di livello che c’era allora.
“Sarò il tuo specchio, rifletterò quello che sei
Nel caso non lo sapessi
Sarò il vento, la pioggia e il tramonto
La luce alla tua porta
Per mostrarti che sei a casa.
Trovo difficile credere che tu non sia consapevole della tua bellezza
Ma se non lo sei lascia che io sia i tuoi occhi
Una mano nel tuo buio, così che tu non abbia paura.
Quando pensi che la notte abbia invaso la tua mente
Che dentro sei contorta e scortese
Lascia che ti mostri che sei cieca
Abbassa la guardia, perché io ti vedo”.
La terza canzone interpretata da Nico, ‘All Tomorrow’s Parties’, è un altro piccolo capolavoro dell’album, una fusione fra il suo incedere vocale un po’ dark ma gentile, e il rigore monolitico della band. È di partenza una canzone folk, ma con un accompagnamento insistito della chitarra ritmica e del pianoforte che crea una strana atmosfera, inquieta, per una favola dolcemara della cenerentola che non si trasformerà mai in principessa, una riflessione sulla vacuità dei sogni e sui rimpianti e la delusione delle aspirazioni non realizzate. Era la preferita di Warhol, che di apparenza e di aspirazioni se ne intendeva, visto l’ambiente che frequentava:
“E quale abito indosserà mai la ragazza povera
A tutte le feste di domani?
Un vestito di seconda mano, preso chissà dove
A tutte le feste di domani
E dove andrà e cosa farà
Allo scoccare della mezzanotte?
Si trasformerà ancora una volta nel pagliaccio della domenica
E piangerà dietro la porta
Perché la ragazzina del giovedì è il pagliaccio della domenica
Per il quale nessuno piangerà
Un sudario annerito, un vestito di seconda mano
Di stracci e seta, un costume
Adatto a quelle che siedono e piangono
Per tutte le feste di domani”
Rimangono due canzoni orecchiabili, e due sturm und drang sonori.
‘There She Goes Again’ è proprio una pop song, fosse arrivata dalla California anni 60 nessuno se ne sarebbe accorto. ‘Run Run Run’ è un’altra cosa, invece. Un r’n’r orecchiabile, arrangiamento che diventa sempre più garage rock a man mano che passano le strofe -scandite con un ritmo verbale da Dylan alla ‘Highway61’ , un infernale ritmo alla Bo Diddley sotto, e una malevolenza tutta Reediana- parla di una serie di figure femminili, nessuna delle quali messe bene: Teenage Mary, che ha detto a Uncle Dave che s’è venduta l’anima, Margarita Passion che si è fatta fare una pera, è andata a vendersi l’anima ma non sapeva cosa comprarsi, Sarah-col-mal-di-mare con naso d’oro che diventa blu facendo urlare tutti gli angeli, con l’aggiunta di Harry-senza-barba che non riesce neanche a trovare un assaggio, e prende il tram per cercarla sulla 47esima. E tutti a «correre correre correre, facendosi un tiro o due».
In chiusura, ‘The Black Angel’s Death Song’ e ‘European Son’. La prima potrebbe essere una ballata dylaniana, dannatamente criptica, che prima crea il tema narrativo,«Le mille possibilità del suo fato gli si sono presentate su un piatto, e deve scegliere quello che ha da perdere/ Non un paese insanguinato di spettri, tutto avvolto nel sonno dove l’angelo nero piangeva, non la strada di una vecchia città dell’est…», e poi lo sviluppa, in una sequenza di visioni e di personaggi simbolici in contesti di distruzione. «L’idea qui», scriverà Reed in Between Thoughts and Expression, «era di mettere insieme parole per il loro suono, non per il significato».
Sembra il Dylan di ‘Desolation Row’ cascato in una session di musicisti impazziti, distorti, dissonanti, un riff di chitarra in 6/8, lo stridìo della viola che manda brividi sù per la schiena. È il brano col quale vengono licenziati al Cafè Bizarre, dove suonano per una settimana in una stanza vuota, “o che si svuotava quando suonavano”, come ironizza Lou nelle note di copertina (scritte da un ottimo David Fricke) del cofanetto onnicomprensivo “Peel Slowly And See”. Quella però è la sera in cui la Rubin, Gerry Malanga e Warhol sono venuti a sentirli, fra avanguardisti ci si intende.
’European Son’ parte con un riff anfetaminico di chitarra, finchè quello che sembra una metropolitana che frena disperatamente e sfonda una parete di piatti spacca e spazza via tutto per finire in un caos sonico di sette minuti: quel genere di ‘suono’ che dal vivo veniva commentato da Lou con un «se questo è troppo ad alto volume per voi, state più indietro»
Estremi, intransigenti, determinati, capaci di scrivere canzoni memorabili ma anche di affogarle, o inframmezzarle con il caos, i Velvet Underground nel 1966 erano un unicum, non avevano nessun possibile rivale o gruppo di riferimento. Incompresi e forse anche incomprensibili per le masse nella loro esplorazione del suono del futuro, anche se nessuno ancora lo conosceva, il futuro. Purtroppo, le stelle non erano allineate: la Verve ritarda di un anno la pubblicazione, esce a marzo ’67, appena si affaccia in classifica le copie vengono ritirate perché l’attore del Plastic Exploding Inevitable la cui foto live compare sul retro fa causa (in cerca di soldi per pagarsi le spese dopo che è stato arrestato per possesso di LSD), il tempo di cancellarlo e quando torna sugli scaffali…è uscito “Sgt Pepper’s”, è partita l’estate dell’amore e ca va sans dire, non sono la colonna sonora ideale di quella sbornia di pacifismo, free love, sole fiori e buone vibrazioni.
Quel primo album senza nome della band, con la sua banana dalla buccia gialla che si poteva aprire –peel slowly and see, appunto- e rivelava sotto un frutto rosa shocking, copertina iconica se ce n’è una, sarebbe stato lasciato presto alle spalle: «Andy mi chiese se volevo continuare a suonare nelle gallerie d’arte e nei musei, o preferivo trovare altre aree», ricorda Lou Reed, «C’ho pensato per un po’, e poi l’ho licenziato. Non avevo mai visto Andy arrabbiato, ma quel giorno sì. Mi ha chiamato un ratto, la cosa peggiore che gli è venuta». Nico, che in fondo non era mai stata veramente parte integrante del gruppo, proseguirà da sola, e i V.U. proseguiranno per altri tre album, perdendo prima Cale, licenziato da Lou, e poi Lou stesso. Quattro anni in tutto, e il velluto sarebbe finito definitivamente sotto terra.
Ma qualche copia era arrivata nei quattro angoli del mondo. La famosa battura di Eno, «solo 30.000 copie ma ognuno degli acquirenti ha creato una sua band», lui i Roxy Music, è probabilmente vera. Altri -come Bowie, il cui manager gliene aveva procurato una copia prima che uscisse, e in un bizzarro brano del ‘67, ‘Little Toy Soldier’, riprende il testo di ‘Venus In Furs’- saranno decisivi per riportare in auge qualche anno dopo Lou, il repertorio dei Velvet, e dare il via a quel paradosso clamoroso. Il destino, glorioso e postumo, degli apripista: un album rifiutato e misconosciuto, una sorta di vaso di Pandora che nel tempo avrebbe dato origine a molto di quello che sarebbe venuto dopo.