Ci mancava solo Ignazio Marino. E adesso è tornato pure lui, a pochi giorni dal voto per le elezioni amministrative, per dire chiaro e tondo non per chi voterà (non lo ha detto, anzi, a domanda precisa ha risposto: «Io voto a Philadelphia»), ma qualcosa di molto più importante: chi si è scusato con lui, e quanto, e come, e chi ancora non lo ha fatto. E questo non stupisce, conoscendo il carattere di Marino. Semmai stupisce che nell’elenco di coloro da cui ancora attende un pubblico atto di contrizione non abbia inserito anche il Papa.
In quell’incredibile autunno del 2015, infatti, poco prima di riunirsi con il suo partito, trovare un accordo e presentare le dimissioni, salvo poi ritirarle a diversi giorni di distanza, un minuto prima che divenissero irrevocabili (un dettaglio della storia di solito omesso quando si parla del suo successivo dimissionamento tramite notaio), forse non tutti ricordano che Marino riuscì a far perdere le staffe persino a Papa Francesco. Prima presentandosi all’incontro mondiale delle famiglie a Philadelphia e poi dando a intendere ai giornali che l’occasione fosse stata scelta dal sommo Pontefice per prendere posizione nella crisi della giunta capitolina, ovviamente a difesa del sindaco (è ancora facilmente reperibile in rete il surreale video in cui Bergoglio scandisce al microfono: «Io non ho invitato il sindaco Marino, chiaro? Ho chiesto agli organizzatori: neppure loro lo hanno invitato»).
Il nuovo episodio nell’infinita vertenza tra Marino e il Pd forse non meriterebbe nemmeno di essere commentato, se non fosse parte di una tendenza generale, a sinistra, che ha trovato in questi anni continue conferme. Basta sfogliare i giornali: non c’è problema politico, per quanto importante, che non sia invariabilmente subordinato a simili questioni personali.
Intendiamoci: non è sempre e solo colpa dei politici. Un po’ – e spesso anche più di un po’ – è pure colpa di noi giornalisti. Ma certo i politici nulla fanno per sottrarsi a un racconto così meschino e triste di tutte le principali vicende che li hanno visti protagonisti. Non c’è intervista sul Quirinale in cui Romano Prodi non si presti alla rievocazione dei terribili 101 (che poi in realtà erano almeno 120, precisa ogni volta, come ha fatto ancora nell’intervista uscita due settimane fa sul Corriere della Sera), colpevoli di non averlo eletto capo dello Stato nel 2013. Un crimine che risale alla bellezza di otto anni fa.
Non c’è intervista in cui Enrico Letta non ricordi, alluda o finga di scherzare (ma si capisce dalla faccia che non scherza per niente) alla sua estromissione da Palazzo Chigi e all’onta di quell’hashtag, #enricostaisereno, lanciato all’inizio del 2014. Ben sette anni or sono.
E mi fermo qui, perché non mi va nemmeno di rifare per l’ennesima volta tutta la storia, dal «complotto del ’98» al tradimento del 2007, in un florilegio di sgambetti, tiri mancini e pugnalate alla schiena (vere o presunte), pettegolezzi e piagnistei (per lo più fasulli), che negli anni ha finito per trasformare una vicenda politica con le sue luci e le sue ombre, ma comunque importante nella storia d’Italia, in una telenovela di quart’ordine.
Avrebbero dovuto essere il partito degli oppressi, sono diventati il partito degli offesi. Non c’è minimo sgarbo che possa mai essere abbonato, o almeno superato in nome dei comuni obiettivi. Forse perché quello che manca è proprio questo: obiettivi comuni che vadano al di là delle singole personali collocazioni. Come conferma anche il fatto che nessuno accetti più di perdere un congresso e di restare in un partito in cui non è lui a comandare, che si tratti di Pier Luigi Bersani quando al vertice c’è Matteo Renzi o di Matteo Renzi quando a vincere è Nicola Zingaretti.
Come dimostra da ultimo il gran ritorno del caso Marino, possono cadere governi, scomparire partiti, dissolversi coalizioni che sembravano invincibili, ma il catalogo delle offese e dei torti subiti da ogni singola personalità del centrosinistra nell’ultimo quarto di secolo non conosce oblio, e tantomeno prescrizione.
Non ci resta che sperare nella riforma Cartabia.