Domanda: «La sorprende questo verdetto, fa chiarezza su quello che è successo, oppure la magistratura ha ecceduto nella ricerca di responsabilità politica nelle strategie della mafia?».
Risposta: «È evidente che una parte di sorpresa c’è, perché si tratta di un rovesciamento completo rispetto a precedenti gradi di giudizio, ma io sono sempre stato molto attento al fatto che le sentenze si prende atto [sic] e giudizi politici, polemiche politiche non mi appartengono su questi temi. Credo che, soprattutto su temi così complessi, per poter dire qualcosa bisognerà probabilmente prima leggere le motivazioni, cercare di capire quali sono i ragionamenti fatti. È evidente che è una sentenza che farà molto discutere, non ho nessun dubbio su questo».
La domanda era di Lilli Gruber, la risposta di Enrico Letta (qui testualmente e integralmente riportata). Lo scambio si è svolto durante la puntata di “Otto e mezzo” andata in onda giovedì sera.
Tutto chiaro? Riassumendo, Letta non ha nessun dubbio sul fatto che la sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia farà discutere. Gli altri, evidentemente. Perché questo è tutto quello che il segretario del Partito democratico dice in merito.
Un’inchiesta su cui sono state scritte decine di libri, su cui sono state imbastite migliaia di ore di trasmissioni televisive, con cui sono state riempite intere annate di tutti i maggiori quotidiani, ovviamente da parte dei magistrati dell’accusa e dei loro numerosi sostenitori nella stampa, da prima ancora che fosse nemmeno cominciato il processo di primo grado. Per anni. E proprio adesso che arriva la sentenza d’appello, e ci dice che quella campagna martellante era infondata, adesso ci sentiamo dire che non è il momento di trarre conclusioni affrettate. Adesso bisogna sospendere il giudizio. Adesso bisogna leggere bene le motivazioni. Perché su queste cose, come dice Letta, non bisogna fare polemiche. Adesso.
Così afferma il segretario del Partito democratico, che si dice molto sorpreso dal fatto che l’appello abbia rovesciato la sentenza di primo grado su una “trattativa” così sintetizzata, già parecchi anni fa, dal mai abbastanza rimpianto Massimo Bordin: «Allora Riina, guarda, noi adesso ti mettiamo in galera, al 41 bis. Ci stai 25 anni. Poi, quando proprio stai per titrare le cuoia, allora, forse, ti facciamo uscire». E Riina: «Ottimo, accetto subito questa trattativa. Dove si firma?».
No, non è una cosa seria.
Dopo avere alimentato la peggiore cultura mafiosa parlando di “Trattativa Stato-mafia” – espressione insensata ed eversiva – oggi la stampa traduce l’assoluzione «perché il fatto non costituisce reato» di tutti gli ufficiali coinvolti (oltre che di Marcello Dell’Utri, per la parte di sua competenza) con la formula: la trattativa c’è stata, ma non è reato. Veicolando il messaggio che le cose siano andate esattamente come sostenevano gli accusatori, ma per qualche misterioso motivo – un cavillo giuridico, o magari l’effetto di un’altra oscura macchinazione – tutti gli ufficiali che quella trattativa avrebbero condotto, guarda un po’, sono stati assolti.
Così, ancora una volta, si riproduce l’infernale meccanismo dell’accusa che si autoconferma: del resto, se era lo Stato a trattare con la mafia, come si poteva pensare che fosse lo Stato a condannarsi? Ed ecco dunque che la campagna può ripartire più forte di prima, fondata com’è su un sillogismo a prova di bomba, che è del resto la dinamica fondamentale di tutti i complottismi. L’accusa vince sempre: quando il tribunale condanna, com’è accaduto in primo grado, perché ha condannato, confermando dunque la tesi accusatoria; e quando assolve, perché proprio l’assoluzione diventa la prova di un complotto ulteriore, che conferma l’esistenza del complotto precedente.
È sempre la stessa storia. In Italia si può parlare di un’inchiesta – anzi, se ne deve parlare – solo fino a quando si tratta di accuse non dimostrate. E si può andare avanti indisturbati per decenni. Quando però si dimostra che quelle accuse erano infondate, ecco che di colpo scopriamo quanto sia importante approfondire prima di parlare, leggere bene le carte, verificare attentamente le motivazioni. Per condannare ci basta un indizio. Per assolvere non è sufficiente una sentenza.
Ecco cosa avrebbe potuto dire Enrico Letta, per esempio.