Michele Mari e Walter Siti sono i due narratori italiani di cui aspetto le uscite – a loro si è aggiunto da qualche tempo Hans Tuzzi. Questione di forma, quindi di sostanza: quel che si dice stile. Tra questi ho una predilezione tutta di gusto per Michele Mari. Ritrovo nella sua narrativa la vocazione all’ossessione e quel suo sciogliersi in parti di felicità e riserbo che nasce manzoniana e cresce in varianti, tra Gadda e Testori. Il gusto dell’impasto di lingua e ombra e la vocazione al lume.
Ecco Mari (da “Leggenda privata”, uno dei libri italiani notevoli degli ultimi dieci anni): «Nacqui d’inverno, concepito in un raptus. Mia madre tutto fuorché volgarotta. Solo talento e intelligenza, ma talmente distruttiva da diventare l’ultracorpo di se stessa, una perfetta macchina di dolore». Allora: il passato remoto che indica e batte, quell’«ultracorpo» che segna il mondo, e poi, micidiale: «una perfetta macchina di dolore». Come tutte le macchine di dolore genera angoscia e dispensa tenerezze lombarde – misurate, e come per paura («Ma alla fine la vidi solo come un’aliena, di giorno l’ultracorpo triste, di sera l’ultracorpo sorridente, nei sogni l’ultracorpo che urla»). Transfuga dalla borghesia milanese e un tempo accanita scalatrice di montagne, una donna tutt’altro che brutta che voleva «consistere solo di intelligenza e talento»; ma capace di leggerezza e colore. (I suoi libri per la Emme Edizioni sono lì a dirlo). Non la si dimentica, la (Gabr)Iela Mari di Michele Mari: è uno dei pochi personaggi memorabili della narrativa italiana degli ultimi anni. Perché?
Mari è uno di quegli scrittori che si nutrono delle proprie ossessioni, sa trarne figure in forma di parole e frasi, e disporre le frasi in romanzo delle ossessioni medesime. Ne abbiamo un vasto campionario e di gran qualità: Gadda, naturalmente, Landolfi e la sua lunare letizia e crudeltà, Manganelli, un’enciclopedia e un breviario, quanto a ossessioni. Tutti inducono nel lettore il sorriso: il dono superiore. Il fatto è che questi cartografi dell’angoscia, tra cui Michele Mari, trasmettono un senso di felicità. È la felicità di scrivere che dice la felicità di leggere, sempre – e comunque, per quanto angosciante possa essere la “realtà” di cui la scrittura.
Michele Mari ha la capacità di rappresentare ossessioni «con una mirabile felicità». (Clausola usata da Goethe in un commento sui “Promessi sposi” del Manzoni e riportata da Sciascia in un saggio raccolto in “Cruciverba”, libro indispensabile: «Ora Manzoni fa uso di questa angoscia con una mirabile felicità, risolvendola in commozione e portando, per tale via, alla meraviglia»). Capacità che è andata via via affinandosi, fino a quello che per me vale come trittico: “Tu, sanguinosa infanzia”, “Verderame”, “Leggenda privata”. (Dovrei dire di “Di bestia in bestia”, il primo romanzo pubblicato e il primo libro di Mari che ho letto, nell’edizione Longanesi – la scoperta, certo, ma allora la sensazione del troppo pieno. Vorrei prima rileggere la nuova edizione rivista dall’autore, vedere com’è). Ora tutto questo trova novello capitolo e leggerezza nel nuovo libro, “Le maestose rovine di Sferopoli”.
Il libro è frutto di una scelta di racconti, di cui tredici inediti, più gli “Oniroschediasmi” già pubblicati e che trovano nuovo luogo, e il florilegio dal titolo “Variazioni Goldberg”.
L’impasto è il medesimo di sempre, ma “la pasta sfoglia verbale” si è fatta più sottile ancora. Gli ingredienti della letteratura inglese cara a Mari ci sono sempre, ma ora il ripieno è più variegato. Oppure, che è lo stesso, hanno perso la caratterizzazione originaria e si son fatti tutti dell’autore. Fatto sta che si respira un’aria di primavera. Una primavera per niente botticelliana – di un quattrocentista umbratile, piuttosto. Uno di quei ferraresi ignoti, come l’autore della “Dormitio Virginis” della Pinacoteca Ambrosiana, quadro davanti al quale non si può che fermarsi.
Si inizia con “Strada Provinciale 921”, immaginario testo di una guida dettagliatissima e mattissima di una valle da esequie («Sulla riva destra del fiume, uno dopo l’altro, paesi senza storia né nome, abitati da villicci afflitti da tare genetiche di origine incestuosa»), dove si viene indirizzati a un belvedere per ricevere l’illuminazione («Mai come in questo momento il mondo vi apparirà una macchina inutile») e con nature morte di comicità manganelliana («La valva di una cozza, su un marciapiede, vi si imporrà come perfetta immagine della noia») a scandire un percorso iniziatico che non può che portare alla figura da incubo delle «maestose rovine di Sferopoli». Insomma, un Mari in sedicesimo e al meglio. Di diverso registro e frutto della stessa poetica è “Boletus edulis”, dove si narra della vicenda di due preti, parroci di due paesi della val Seriana, entrambi miracolosi raccoglitori di funghi e così rivali, come i rispettivi borghi, dove il protagonista è il Boletus edulis, «volgarmente cognominato porcino», qui figura della diabolica facondia della Natura tentatrice, prima ragione della dismisura umana, che porta al finale degno di un racconto di E.T.A. Hoffmann. Sono questi e altri di tenore simile i racconti migliori della raccolta, che pure vanta il notevole “Panopticon”, figura dei sogni e incubi della Ragione, qui portata al delirio di un disegno di Johann Heinrich Füssli e altre crudeli amenità.
Il mondo di Michele Mari è un mondo dove coesistono in sinistra armonia mostri e numi tutelari (interscambiabili?), classici cinquecenteschi e tascabili di Urania, dove la scrittura è esorcismo e mai pena, unica via per scampare al risveglio quotidiano («Alba livido-lurida, furore e rancore: quanto stile mi ci vorrà, quanti quintali di stile?»). Tanti, vien da dire – e non è un problema. In compagnia del fantasma del padre, Enzo Mari, e del suono della sua voce («un sibilo antichissimo, lovecraftiano, di ultracorpo mentito in umano»), di quello della madre, Iela Mari, più ricorrente e ultracorpo umano, lei, e magari dell’uomo del verderame («Perché mi voleva bene, quell’essere, ed essere amato da un mostro è la migliore delle protezioni dall’orribile mondo»), si può affrontare la chiusura dei cinema di quartiere e poi anche del centro, ci si può abbandonare senza rimorsi alla frivolezza («le bellurie mi lusingano, risarciscono l’incubo»), aggiungere libri nel corridoio-libreria che appare ciclopico come un disegno di Étienne-Louis Boullée, raccogliere libri della Medusa. Intanto, praticare la felicità di scrivere e offrirla al lettore.
Michele Mari ha saputo presto il luogo della sua scrittura, l’ha occupato, lo presidia. Sa trarne partito e allegrezza. Per intendere come e quanto, basterà leggere il “Dialogo fra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi”, dove si immagina e si narra il dialogo tra Mozart e un furmagiàtt, che discorrendo del gorgonzola (anzi: Gorgonzola) arrivano per audaci approssimazioni a dire tutto, passando per le macchie («La gentil vena glauca, una macchia! Dunque vi sfugge la raffinatissima tecnica contrappuntistica con cui il tema della perlacea mollezza si rifrange nella fuga dei grigi, dei verdini e dei verderami?», precisa il venditore) e una reminiscenza di Mozart (fra sé): «…il verderame, sì, il buon veleno che si dà sulla frutta, l’ombra che definisce la luce…». Voilà, Mari.