Passione q.b.Il romanzo non è morto, ma i narratori non si sentono tanto bene

Dopo Cormac McCarthy e Philip Roth, gli scrittori, anche i migliori fra loro, si sono rifugiati nella non-fiction e nell’auto-fiction per sentirsi più liberi. Forse si sono dimenticati che Melville, Dostoevskij e Tolstoj avevano scelto quella “forma” di racconto proprio perché consentiva loro di dire tutto

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Parliamo del romanzo – serve farlo: c’è confusione. Leggo di nuovi annunci sulla morte del Nostro, di esequie sulle spoglie del Caro Estinto e via tragediando. Viene da sorridere, ma andiamo avanti.

Io non ho sentito o letto alcun discorso al riguardo (cerco di leggere le riviste letterarie europee e atlantiche: niente – sarò distratto); non so e non voglio sapere di dibattiti in corso: il dibattito è irrilevante, sempre. Contano i discorsi, che nascono dai fatti. Il fatto è un altro: non si scrivono più (e quindi si leggono) grandi romanzi. Non nascono più grandi romanzieri.

Facciamo un passo indietro. Un grande romanzo nasce, vive e perdura se ci offre un grande personaggio – oppure più personaggi notevoli, che ne fanno uno grande (tenete a mente questa ultima affermazione). La prova? Facile: i titoli.

Melville: Moby Dick (non è un personaggio? no? sicuri?), Benito Cereno, Billy Budd; Tolstoj: Anna Karenina, La morte di Ivan Il’ič, I cosacchi; Dostoevskij: I fratelli Karamazov, I demoni, L’idiota; Balzac: Eugenia Grandet, Louise Lambert, Papà Goriot; Hugo: I miserabili; Flaubert: Madame Bovary, Bouvard et Pécuchet – evito di citare i titoli dei romanzi inglesi: dal Robinson Crusoe in avanti è quasi la norma. Sono tutti romanzi dell’Ottocento (tenete a mente anche questo: servirà, eccome).

Ora, per dare figura a un grande romanzo servono due qualità e in abbondanza: forza cognitiva e potenza immaginativa, più una spezia: la passione. Cognizione, immaginazione, passione. Gli ultimi due romanzieri a possederne la necessaria abbondanza sono Cormac McCarthy e Philip Roth: i loro capolavori e i personaggi che li animano sono nel canone e rimangono. Il giudice Holden e Billy Parham, Nathan Zuckerman e Seymour Levov sono figure memorabili per il lettore, tanto quanto quelle dei romanzieri dell’Ottocento. Ma andiamo con ordine.

Quale scrittore della generazione successiva (i nati negli anni Quaranta) ha compiuto l’impresa? Nessuno, per ora. Ma due di loro ci sono già andati vicino: Martin Amis e Marilynne Robinson (di Amis e del nuovo Inside Story scriverò, come pure tornerò a Housekeeping della Robinson). Altrettanto si può dire di Denis Johnson con il suo Albero di fumo.

Dalla generazione successiva niente di rilevante, tranne il cileno Roberto Bolaño, morto nel 2003 lasciando due gran libri, I detective selvaggi e 2066, e l’ungherese László Krasznahorkai: un fuoriclasse. (Se i signori del Nobel, dopo i meritevoli Peter Handke e Louise Glück, e nonostante i lai degli insipienti, continueranno a privilegiare la letteratura: ecco, sarà lui, Krasznahorkai, a vincere al prossimo giro). Per il resto, poco o nulla di vicino alla grandezza.

I primi a rendersi conto del fatto, la difficoltà a dar figura a un grande personaggio, sono stati gli scrittori, i narratori, e i migliori tra quelli. Ecco un esempio, europeo.

Andiamo in Francia – con la Germania offre oggi la letteratura di maggior qualità. I narratori notevoli d’oggi sono Emmanuel Carrère e Régis Jauffret (Houellebecq: no). Entrambi iniziano scrivendo romanzi: sono opere che rivelano la qualità di scrittura di entrambi, ma anche la difficoltà a dar figura al grande personaggio.

Capiscono il punto e cambiano strategia. Le soluzioni sono diverse e convergenti: Carrère sceglie di prendere una figura rilevante dalla cronaca (Jean-Claude Romand, Limonov), affiancargli il proprio ingombrante Io e farne romanzo; Jauffret decide di scrivere cinquecento microstorie con altrettanti personaggi e far folla.

La prima soluzione non è nuovissima (la soi-disant auto-fiction ha una lunga storia) e offre a un affabulatore come Carrère il proprio compimento – peccato che poi, una volta asceso allo star system, decida di eliminare il protagonista e di lasciare solo in scena il proprio alter ego di turno: non un gran personaggio. (Yoga è una lettura di gradevolissima noia, quasi come una seduta di meditazione; e quanto a Il regno, la storia della conversione e riconversione di lui medesimo, dopo cinquanta pagine ho capito che era, è superiore alle mie forze e sono passato ad altro. Temo che Carrère dovrà accettare il fatto che la sua vicenda personale di privilegiato fragile di buona volontà non fa un grande personaggio).

Originale e incendiaria è la scelta di Régis Jauffret: i due volumi di Microfictions, della cui edizione italiana dobbiamo ringraziare le edizioni Clichy, sono lì a inciderlo. (Particolare: in copertina compare, volontà dell’autore, la parola magica: Romanzo). Cinquecento microstorie di due pagine ciascuna: mille pagine di letteratura, per ciascun volume – e Jauffret ha ammesso che continua a scriverne, di microfinzioni.

Sono acqueforti, come ho scritto: la poetica di Jauffret è quella della corrosione. La commedia umana delle sue Microfictions ha il tono iperbolico, feroce dei Caprichos di Goya: tutte le possibilità dello scherzo crudele sono in campo: è la folla moderna. La si sente spingere per uscire dalla cornice e entrare in massa, vuole fare fabula.

Bene: non mi capitava da tempo di sentire quella spezia: la passione del romanzo. La passione che tutto brucia – quella del cacciatore, non del birdwatcher.

Paradossale, si potrebbe dire. Non come sembra – anzi, per niente. Basta leggere uno qualsiasi dei virtuosi della non-fiction letteraria d’oggi (Geoff Dyer, Olivia Laing, Dany Laferrière) per intendere come la scelta del modulo della non-fiction è frutto della maggior libertà di campo narrativo che percepiscono, rispetto al romanzesco. Eppure, ciascun loro libro è pervaso dalla passione del romanzo.

Fermiamoci su questa espressione, “la passione del romanzo” e recuperiamo (l’ho detto che sarebbe servito) il dato fondamentale: il romanzo è “il” tipo dell’Ottocento, trova allora la sua forma compiuta. Una delle caratteristiche che ne fanno la fortuna agli occhi degli scrittori è la possibilità che offre di tutto dire, della digressione, del racconto nel racconto e via meravigliando. (L’altra caratteristica unica è la duttilità: sopporta e sostiene tutti i generi – dramma e melodramma, commedia e satira – tranne la tragedia).

Ora, credete che Melville, Dostoevskij, Tolstoj avrebbero amato e fatto uso del romanzo se non offrisse tutto il campo della narrazione al discorso? Non credo proprio. Ecco, succede che l’affermarsi del paradigma (diciamo così…) della “pura narratività”, bischerrimo quanto quello speculare del nouveau roman, ha ridotto l’ambito della narrazione romanzesca a quello della peripezia e annessi. (Primi fra tutti gli ex avanguardisti che, come sempre i reduci, son quelli più rapidi e pronti alla devozione).

Questo è il punto: il romanzo deve tornare a essere il campo libero alla narrazione e alla digressione che è sempre stato, altro che “narratività”. Credo che solo così gli scrittori (non gli scriventi, anche di talento: gli scrittori) torneranno ad appassionarsi al romanzo e a scriverne di magnifici.

Il romanzo è vivo e aspetta solo di tornare a incendiarsi: sono i narratori che non stanno bene – e boccheggiano esercizi di pura narratività e noia.

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