Quella che sembrava profilarsi come una crisi diplomatica alla fine non c’è stata. L’incontro tra Papa Francesco e il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha avuto infatti luogo ieri mattina a Budapest presso la Sala Romanica del Museo delle Belle arti, dove ad accogliere il pontefice, nel primo giorno del viaggio apostolico in Ungheria e Slovacchia, c’erano anche il presidente della Repubblica magiara, János Áder, e il vicepremier, Zsolt Smjén.
Il colloquio con le autorità ungheresi è durato, come da programma, una quarantina di minuti e si è svolto «in un clima cordiale» alla presenza del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, e dell’arcivescovo Paul Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati.
A rilevarlo, con frasario in realtà consueto, la Sala Stampa della Santa Sede, che in uno scarno comunicato, diffuso a poco più di un’ora dall’incontro, ha reso noto che «tra i vari argomenti trattati, vi sono stati il ruolo della Chiesa nel Paese, l’impegno per la salvaguardia dell’ambiente, la difesa e la promozione della famiglia».
Un testo, insomma, per far quasi dimenticare il polverone suscitato dalle precedenti parole bergogliane. Parole che Francesco aveva detto al giornalista Carlos Herrera nel corso dell’intervista trasmessa il 1° settembre da Radio Cope, emittente della Conferenza episcopale spagnola: «Non so se lo incontrerò [Orbán, ndr]. So che le autorità verranno a salutarmi. Non vado nel centro di Budapest, ma nel luogo del Congresso eucaristico. E c’è una stanza dove incontrerò i vescovi e lì riceverò. Le autorità che verranno. Non so chi verrà. […] Uno dei miei principi è non procedere secondo copione: quando sono davanti a una persona la guardo negli occhi e lascio che le cose vengano da sé. Non mi viene neanche da pensare a cosa le dirò nel caso in cui dovessi starci insieme: sono una serie di ipotesi future che non mi aiutano. A me piace il concreto. Il futuribile ti crea problemi, ti fa male».
Parole, quelle di Francesco, quasi a marcare una presa di distanza da certo sovranismo cristiano in chiave spesso islamofobica, di cui Orbán è corifeo in Europa al pari di un Kaczyński, di un Chega, di un Salvini. Ma anche volontà di fugare qualsiasi strumentalizzazione politica di un viaggio prettamente spirituale, il cui punto più alto a Budapest è stata la concelebrazione in piazza degli Eroi a conclusione del 52° Congresso eucaristico internazionale. In quello stesso luogo, cioè, dove il 25 maggio 1938 il legato pontificio Eugenio Pacelli, che sarebbe stato eletto di lì a poco papa col nome di Pio XII, aveva tenuto un alato discorso in magiaro e fluente francese durante la messa di apertura del 34° Congresso.
Orbán, che è un calvinista affascinato da Roma – forse anche perché in Ungheria su una popolazione di poco meno di dieci milioni di abitanti i cattolici sono 5.980.000 e molti sono quelli che militano in Fidesz –, ha partecipato con la moglie all’imponente messa papale (più di 100.000 le persone presenti), indicata dal 1960 in poi con l’altisonante appellativo di Statio orbis.
Ossia, come già spiegato nel 2008 dal presidente del Pontificio Comitato per i Congressi eucaristici internazionali Piero Marini, «una sosta in cui le Chiese particolari di varie parti dell’Orbe si uniscono in comunione con il Papa o con il suo Legato intorno al mistero eucaristico, per manifestare e approfondire la propria fede».
Una partecipazione, quella di Orbán, su cui non c’è stata certezza assoluta quasi fino all’ultimo. Ma comunque prevedibile, soprattutto dopo i due post comparsi sulla pagina ufficiale Fb del primo ministro, l’uno a distanza di meno di un’ora dall’altro e, in ogni caso, prima che fosse diramata l’accennata nota della Sala Stampa: il primo costituito dalla foto della stretta di mano con Bergoglio, il secondo da un meme con la scritta: «Ho chiesto a Papa Francesco di non lasciare che l’Ungheria cristiana perisca».
La risposta del pontefice dell’accoglienza e dell’umana comunione, che nei precedenti incontri con l’episcopato cattolico ungherese e in quello ecumenico-interreligioso aveva ampiamente impiegato la metafora dell’essere e costruire ponti di contro a quella dei muri della separazione da abbattere, non si è fatta attendere.
All’Angelus, in termini indubbiamente indiretti ma diametralmente opposti all’identitarismo politico-cristiano di Orbán, Francesco ha infatti dichiarato: «Il sentimento religioso è la linfa di questa nazione, tanto attaccata alle sue radici. Ma la croce, piantata nel terreno, oltre a invitarci a radicarci bene, innalza ed estende le sue braccia verso tutti: esorta a mantenere salde le radici, ma senza arroccamenti; ad attingere alle sorgenti, aprendoci agli assetati del nostro tempo. Il mio augurio è che siate così: fondati e aperti, radicati e rispettosi». Un richiamo anche all’episcopato magiaro, che non ha mai nascosto le sue simpatie per il primo ministro a partire dal cardinale arcivescovo di Esztergom-Budapest, Péter Erdő.
Ma la lezione bergogliana dell’accoglienza e del costruire ponti è stata recepita poco o nulla da Orbán, stando almeno a quanto scritto dal suo portavoce Zoltán Kovács. Il fedelissimo del primo ministro ha infatti twittato contro la Bbc. La colpa? Aver titolato sul viaggio apostolico in riferimento alle parole con cui Bergoglio ha condannato l’antisemitismo ancora serpeggiante in Europa.
«L’Ungheria», così il tweet, «è onorata di ospitare il Congresso eucaristico internazionale e di accogliere il Papa: è il suo primo viaggio post-pandemia, più di centinaia di migliaia di pellegrini da tutto il mondo. Bellissimo evento, riuscito impeccabilmente, ma i pennivendoli della Bbc pubblicano un titolo sull’antisemitismo».
Con l’hashtag conclusivo #orbanophobia Kovács ha davvero detto tutto e dimostrato come distino sideralmente le vedute del suo capo e del papa argentino.