Enrico Letta ha spostato il Pd più a sinistra. Il discorso di ieri a Bologna è stato molto tradizionale ma chiaro: dal ritrovato spirito ultrabipolarista al rilancio dei temi identitari (Zan, Ius soli), il tutto in uno spirito molto autoreferenziale (rispetto a Zingaretti almeno fa leva sul Pd stesso e non sui grillini), il segretario ha per così dire messo la quarta.
Non è chiaro se sia solo l’aria senese, cioè il voto del 4 ottobre, ad avergli suggerito questa torsione ma l’impressione è quella di una scelta politica più di fondo. Lasciamo qui stare che i proporzionalisti del Pd siano rimasti molto male, e che i riformisti pensino che sia stato solo un comizio, e prendiamo per buona la strategia di sinistra del leader democratico.
Letta considera risolto da sé il problema del rapporto con i Cinquestelle stante le enormi difficoltà del partito di Giuseppe Conte. Ma non avrebbe guastato un minimo di analisi autocritica (lui era a Parigi ma questa non è una giustificazione) sulla sottomissione psicopolitica della sinistra a un gruppo a-democratico.
E poi il M5s non è morto. Non basta certo un episodio kitsch come quello di Conte che intona “Bella ciao” per chiarire i rapporti con l’avvocato del populismo: ma Letta di questo non ha parlato. E con Renzi, Calenda, Bonino che si intende fare? E a quali forze della società si vuole lanciare un segnale di apertura, di ascolto? Questo Letta non l’ha detto. E infine dove inizia e dove finisce il sentire comune con Mario Draghi? Anche e soprattutto questo aspetto non è stato seriamente affrontato.
Ora qui la domanda è semplice: questo tirare a sinistra di Letta, che è anche una risposta a Salvini, può creare una inedita tensione nella maggioranza? È molto probabile, per non dire sicuro. Se uno tira la corda da una parte e un altro la tende dall’altra è chiaro che a lungo andare la corda finisce per spezzarsi.
Basta fare degli esempi concreti. Sulla legge Zan già si è visto come l’intransigenza porti allo stallo, e dunque ci si chiede cosa dia oggi a Letta la certezza che la Zan verrà sicuramente approvata; così per lo Ius soli e per tutte le leggi “divisive”. Il dubbio pertanto è se il Pd si prepari a rompere con la Lega («destra estrema») senza però spiegare come potrebbe il governo andare avanti, giacché è escluso che Mario Draghi possa o voglia guidare un esecutivo che non sia di larghe intese.
Allora forse Letta pensa a un nuovo governo – il quarto della legislatura – con una maggioranza stretta di centrosinistra avendo prima mandato Draghi al Quirinale? Ma questo contrasta con quanto ribadito ieri proprio da lui, e cioè che Draghi debba proseguire fino alla fine della legislatura.
Tutto questo rinvia alla questione non solo della “linea” ma della natura del Pd. Ci sarà una ragione se il politologo Salvatore Vassallo, che conosce benissimo quel partito, lo definisce “Pd(s)”: è la constatazione che il partito del Nazareno stia per così dire tornando sui suoi passi non solo nei contenuti, peraltro sempre un po’ vaghi, ma anche nella postura, nei toni, nei riti, senza cioè lasciarsi “contaminare” dal metodo-Draghi, combinato di decisionismo e gradualismo riformatore. Il punto è ineludibile: oltre i salamelecchi di rito, quale rapporto politico c’è davvero tra Pd e Draghi? Draghi è il nuovo Dini o la carta vincente del riformismo italiano? Finché non si scioglie questo nodo, il Pd conserverà sempre un grumo di ambiguità.
Insomma, lo spostamento a sinistra del Pd di Enrico Letta a chiacchiere può funzionare, cioè riattivare il suo popolo e persino portare voti, ma se non si affronta in modo trasparente la questione del rapporto tra riformismo e tradizione – diremmo fra Pd e Pds – si possono creare serie difficoltà. Non tanto al Nazareno, ma al Paese.