Tratto dall’Accademia della Crusca
Alcuni lettori ci chiedono notizie sulla diffusione delle parole “caramba” e “sbirro”; in merito a “sbirro” ci è stato anche domandato se vi siano delle differenze tra l’uso che se ne fa oggi rispetto a quello dei secoli passati.
Risposta
Caramba
Come avverte Ernesto Ferrero nel “Dizionario storico dei gerghi italiani: dal Quattrocento a oggi” (Milano, Mondadori, 1991), “caramba” è «una delle tante deformazioni ironiche» della parola carabiniere. Tra gli altri gergalismi usati per riferirsi ai membri dell’Arma lo studioso cita come «egualmente diffuse» “carabba”, “carubba”, “carrubbi”, “carrubi”. Anche Augusta Forconi, in “La mala lingua. Dizionario dello slang italiano” (Milano, SugarCo, 1988), menziona “carabba” oltre a “caramba”, rimandando anche a “carubba”; anche queste forme vengono segnalate dall’autrice come deformazioni dal «tono scherzoso o spregiativo» di “carabiniere”.
Molto probabilmente, “caramba” si è imposto nell’uso rispetto alle altre varianti per via dell’analogia con l’esclamazione “caramba!”, voce eufemistica di origine spagnola (“GDLI, Supplemento 2004”; v. anche il “DLE, Diccionario de la lengua española”, disponibile sul sito dle.rae.es). Con questa accezione il vocabolo si attesta già a partire dal Diciannovesimo secolo nell’italiano letterario (due occorrenze in “LIZ 2001”, appartenenti entrambi al romanzo “La bocca del lupo” di Remigio Zena, composto alla fine dell’Ottocento), mentre la voce di provenienza gergale fatica a penetrare nella lingua di tutti i giorni.
Per quanto riguarda l’uso giornalistico, la prima testimonianza rinvenuta negli archivi risale a un articolo de La Stampa del 1969 che tratta della pubblicazione, da parte della Polizia di Stato, di un dizionario sul gergo dei criminali da utilizzare come sussidio informativo per la formazione delle reclute; oltre a “caramba”, che secondo quanto riportato nell’articolo sarebbe stata la forma allora circolante negli ambienti malavitosi di Trento, l’articolo menziona alcune altre possibili varianti con cui i carabinieri venivano appellati dai criminali:
«A Bari i carabinieri in pattuglia sono chiamati “fratelli Bandiera”, mentre da Palermo a Torino gli stessi carabinieri diventano “fratelli Branca”. Il carabiniere è “Gianni” a Cagliari, “caraba” a Firenze, […] “ciapaciuc” ad Aosta, “giusta” a Potenza, “scime” a Bari, “asso di danaro” a Milano, “chiodi” a Roma. Il carabiniere in alta uniforme è a Roma il “pinguino” con riferimento alla giacca con le code». ([s.f.], “Come parla la malavita”, La Stampa, 9/5/1969)
Insomma, sul finire degli anni Sessanta la situazione era tutt’altro che unitaria. Gran parte delle successive testimonianze rinvenute nell’archivio sono inserite tra virgolette, all’interno delle battute dialogiche riportate dal giornalista:
«Ad un tratto, accanto al marciapiede, si fermavano una “Renault” – targata pare SV 135246 – ed un pulmino “Volkswagen”. Sui due veicoli c’era solo il conducente. L’autista della vettura si è sporto dal finestrino ed ha apostrofato l’ex appuntato: “Tu sei un caramba, vieni con me”». ([s.f.], “È rapito in auto nella notte da due uomini ad Albissola”, La Stampa, 7/2/1973)
Oppure, in alcuni articoli viene impiegato il corsivo per dimostrare un distacco, evidenziare la natura metalinguistica di tale uso:
«Se c’è un florilegio così folto sulla cretineria dei carabinieri, la ragione dev’essere cercata, dicono gli autori, nel comportamento vessatorio che i caramba hanno sempre avuto nei confronti dei deboli». (Francesco Rosso, “Discorso serio sulla satira ridanciana”, La Stampa, 20/1/1978)
In un altro importante archivio storico, quello de la Repubblica, la prima attestazione si ritrova in un articolo dell’agosto del 1987 sulla fine della latitanza del famoso criminale Renato Vallanzasca, il quale, durante la cattura disse: «Bravi, caramba, avete fatto tredici!» (Roberto Bianchin, “Bravo caramba, hai fatto tredici”, la Repubblica, 8/8/1987). L’archivio, però, raccoglie gli articoli soltanto a partire dal 1984; è dunque altamente probabile che possano esserci attestazioni precedenti non documentate.
Una mera analisi quantitativa sul numero di occorrenze nei due repertori giornalistici ci mostra che “caramba” compare più o meno con la stessa frequenza tra gli anni Settanta e Novanta – per la precisione, 9 occorrenze negli anni Settanta, 6 negli anni Ottanta, 7 negli anni Novanta – per poi diffondersi notevolmente negli anni Duemila: sono 18 i casi riscontrati relativi a questo periodo, tenendo tra l’altro in considerazione che l’archivio della Stampa non va oltre il 2006. L’elemento di novità risiede nell’uso di “caramba” con un intento maggiormente ludico: in un articolo sulle nuove uniformi delle carabiniere si citano le «caramba in gonnella» (Antonella Amapane, “La carabiniera è chic e porta il tacco alto”, La Stampa, 23/1/2000); «più samba e meno caramba» recita una scritta su un muro del quartiere San Lorenzo, a Roma (Laura Laurenzi, “Storie d’amore sul muro di casa”, la Repubblica, 18/12/2012).
A proposito di finalità ludiche, abbiamo anche testimonianza dell’uso in LinguaGiovani, la banca dati online sul linguaggio giovanile realizzata dall’Università di Padova, che riporta “caramba” nella glossa di un’altra voce, “cannare”, mentre viene registrata come voce a sé stante la variante “caraban”, documentata alla Spezia («i carabàn l’han fermato e gli han fatto una bella multa»); sempre in relazione ai repertori online, la banca dati itTenTen, uno dei più vasti corpora di italiano in rete, consultabile tramite il software di analisi testuale Sketch Engine, registra 592 occorrenze di “caramba”, a fronte però di oltre 4.000 occorrenze di “carabiniere” e “carabinieri”.
È possibile ipotizzare, dunque, che “caramba” abbia cominciato stabilmente a circolare a partire dagli anni Sessanta e che sia ancora piuttosto diffuso nell’italiano contemporaneo, ma la scarsità di fonti disponibili non ci permette di andare oltre il dubbio: basti pensare al fatto che lo sterminato repertorio di Google libri registra un solo uso del vocabolo in un dialogo presente nel romanzo noir di Massimo Barone, “Amici di chiave”, edito a Roma da Fazi nel 1998 (a pagina 76): «“I caramba lo cercano negli scafossi tra Tarquinia e Montericcio. Sanno che sta provando la Jeep”, ha spiegato lo Svitato».
(S)birro
Tutt’altro che gergale è la parola “sbirro”, diffusa nella nostra lingua da secoli. L’etimologia del vocabolo non è certa: secondo il “DELI”, l’ipotesi più probabile è che derivi dal latino tardo “birru(m)“, il mantello rosso a cappuccio che avrebbero indossato gli antichi sbirri, a sua volta proveniente dal greco “pyrròs” (“rosso”); a partire da “birro”, “sbirro” si sarebbe formato tramite l’aggiunta del prefisso latino ex- con valore peggiorativo (v. il “GDLI”). Il “DELI” avanza anche un’altra ipotesi, cioè che possa trattarsi di una variante di “sgherro”, parola che già anticamente designava l’uomo al servizio di un potente, dai modi violenti e intimidatori, alla stregua dei bravi e dei sicari (v. ancora il “GDLI“).