Il 23 agosto un guasto al serbatoio di una raffineria petrolifera a Baniyas (Siria nordoccidentale) – che è il principale sito produttivo di carburanti del Paese – ha causato la perdita e il conseguente sversamento in mare di circa 15mila metri cubi di carburante.
Secondo l’analisi delle immagini satellitari di Orbital EOS, il danno avrebbe generato una marea nera di 800 chilometri quadrati (equivalente alla superficie di New York), che ora si muove nel Mediterraneo orientale, viaggiando verso le coste della Turchia e di Cipro del Nord.
La rotta di questa onda tossica è soggetta all’andamento di venti e correnti: in un primo momento, si preannunciava un pesante impatto sulle coste di Cipro del Nord, ma a metà della scorsa settimana i venti hanno virato, allontanando dalla costa il diffondersi della marea nera.
Secondo il vicepresidente turco Fuat Oktay, che venerdì 3 settembre ha tenuto una conferenza stampa nel complesso presidenziale di Ankara insieme al presidente turco-cipriota Ersin Tatar, l’inquinamento di greggio nel Mar Mediterraneo sarebbe solo superficiale e dunque non pericoloso.
Oil leak from Syria carries no risk to Cyprus: Turkish VPhttps://t.co/8uYTyB7Wbs pic.twitter.com/qqnvTsji2Q
— Yeni Şafak English (@yenisafakEN) September 4, 2021
Tuttavia, sono possibili ripercussioni sull’ecosistema marino e sulla biodiversità di quell’area, così come sulle comunità e sulle imprese che dipendono dal turismo e dalle risorse marine.
Per quanto riguarda la Siria, alcune testimonianze riportate dalla Cnn raccontano che il danno è superiore alle forze del Paese in questo momento storico. Il 44 per cento della marea nera è finito infatti sul tratto di costa siriana tra Baniyas e Jableh, a Nord della raffineria. E potrebbero volerci mesi solo per valutare la portata dell’impatto di questo disastro ecologico, che è il secondo ad aver afflitto quest’anno il Mediterraneo orientale. Lo scorso febbraio, infatti, una perdita di greggio della petroliera Emerald al largo della costa israeliana ha danneggiato le coste di Israele, di Gaza e del Libano. Le due storie chiariscono ulteriormente i rischi che derivano dal portare avanti progetti di sviluppo e sfruttamento petrolifero in un bacino chiuso come il Mediterraneo, soprattutto quando le infrastrutture sono obsolete e carenti nella manutenzione.
«Questo recente incidente», ha specificato il Wwf in una nota, «rappresenta un ulteriore richiamo sui grandi rischi associati all’estrazione e alla lavorazione degli idrocarburi nel bacino semi-chiuso del Mediterraneo, caratterizzato da un pericoloso accumulo degli inquinanti petroliferi e dove le conseguenze di tali incidenti possono causare effetti negativi a lungo termine sugli ecosistemi e sulle comunità che vivono lungo le coste».
«Esortiamo tutti i Paesi colpiti ad agire rapidamente e a stanziare fondi in modo che possa essere condotta un’efficace pulizia delle aree colpite per evitare ulteriori dispersioni e contaminazioni di habitat e specie marine», ha sottolineato Mauro Randone della WWF Mediterranean Marine Initiative. «È tempo che tutti i Paesi del Mediterraneo adottino misure forti per riadattare e mettere in sicurezza le infrastrutture obsolete di petrolio e gas in modo che non si verifichino altri incidenti di questo tipo».