Complessi di inferioritàPerché la Russia non smetterà mai di odiare (e ammirare) l’America

Come spiega Luca Gori nel suo ultimo libro (Luiss University Press) l’atteggiamento di Mosca è ambivalente: cerca il riconoscimento dello status di grande potenza e lo può trovare solo in negativo, cioè ponendosi come grande nemico. Alla base dello scontro c’è anche una visione del mondo diversa, dettata dall’ordine più che dalla libertà

di Jaunt and Joy, da Unsplash

Nel tentativo post sovietico di crearsi una nuova identità nazionale, la Russia ha sempre visto negli Stati Uniti l’“altro”. Il partner o il nemico, l’entità con cui competere, cooperare o confrontarsi per misurare la bontà del proprio percorso di modernizzazione e – soprattutto – per vedersi riconosciuto lo status di grande potenza.

Dal punto di vista della costruzione della propria identità post sovietica, per Mosca il rapporto con gli Stati Uniti è più importante di quello con l’Europa, che rimane invece cruciale sul piano culturale, economico-commerciale, energetico e degli equilibri di sicurezza.

Osservando la propria immagine riflessa nello specchio americano, la Russia ha lasciato spesso trasparire un sentimento verso gli Stati Uniti di attrazione-repulsione che dissimula, in realtà, un doppio complesso di superiorità-inferiorità. Il desiderio di aprirsi all’Occidente e – al contempo – l’esigenza di richiudersi in quello che Iosif Brodskij chiamava la “xenofobia uterina” dei russi.

Secondo il sociologo Aleksej Levinson, questo riflesso contraddittorio avrebbe anche una sfumatura moralista:

L’America è il nostro Altro significativo. La rivalità con l’America non si dipana nel mondo reale, ma nel riflesso che ne esiste nella coscienza collettiva russa. E in questa sfera, ciò che conta non è sconfiggere l’Altro, ma essere completamente certi di non essere peggiori di lui.

La Russia non ha quindi bisogno di “sconfiggere” gli Stati Uniti, ma di sentirsi migliore o comunque diversa da loro. «Pensano che siamo uguali a loro – ha avvertito Putin – ma siamo diversi. Abbiamo un codice genetico, culturale e morale diverso».

Nel rapporto tra Mosca e Washington, marchiato dalla logica della Guerra fredda e quindi dalla necessità di sentirsi superiore all’altro, è successo raramente che non prevalessero i rispettivi nazionalismi, intrisi di antiamericanismo e russofobia. È accaduto nel corso delle due guerre mondiali e nella reazione al dramma dell’11 settembre. Se n’è avuta traccia – sia pur sullo sfondo – quando Mosca ha cercato di intraprendere un cammino di riforme, allungando lo sguardo, apparentemente, anche a Occidente: con Chrušˇcëv, Gorbaˇcev, El’cin e in parte Medvedev.

Nel corso degli anni Zero, con l’unipolarismo di Washington e la progressiva “svolta conservatrice” del Cremlino, ha però prevalso nuovamente in Russia la narrativa di un’America come “altro” ostile. Si è iniziato così a parlare di “Guerra fredda 2.0”, conflitto “ibrido”, “irregolare” o “asimmetrico”. Un confronto basato soprattutto su propaganda mediatica, corsa alle nuove tecnologie, ideologia, strumenti economico-finanziari, sanzioni. I conservatori russi hanno alzato i toni della retorica antiamericana, dipingendo sempre più gli Stati Uniti come una potenza unilateralista, che affronta le dinamiche russe esclusivamente con le proprie categorie concettuali, secondo esigenze prevalentemente di politica interna, o attraverso il pregiudizio di una differenza democratica ancora da colmare. Come un Paese indisposto, in ultima istanza, a comprendere l’unicità della Russia e attivamente impegnato, in realtà, a indebolirne ruolo e aspirazioni sulla scena globale. Un atteggiamento diventato ulteriormente abrasivo in coincidenza con l’annessione della Crimea.

Nella sua funzione di antagonista, l’America ha continuato a fungere per Mosca da principale termine di paragone su scala internazionale. La percezione che Washington ha della Russia conservatrice di Putin resta quindi un fattore determinante nel costante esercizio di autocoscienza nazionale condotto dal Cremlino.

Naturalmente Mosca sa bene che la relazione con una Washington sempre più assorbita dal confronto strategico con la Cina non è più il perno attorno al quale girano gli equilibri globali. Sa inoltre che il rapporto bilaterale con gli Usa resterà a lungo su una traiettoria conflittuale. I vincoli interni e internazionali che ne avevano impedito la normalizzazione nell’arco di tempo che va da Bush padre a Obama sono infatti oggi ancora più stringenti. Neppure la buona chimica personale tra Trump e Putin – favorita da una condivisa sensibilità nazionalista e da una visione comune, fortemente leaderistica, dell’esercizio del potere – ha permesso di intaccare la profonda diffidenza dei rispettivi deep state.

La Russia è però egualmente consapevole di avere alcuni vantaggi comparati da far valere nella relazione con gli Stati Uniti: è una potenza nucleare e membro permanente del Consiglio di Sicurezza; è un partner nella lotta al terrorismo e alla proliferazione nucleare; resta un attore chiave nel campo della sicurezza internazionale, dallo spazio ex sovietico al Mediterraneo; ha un sistema politico che permette un processo decisionale più rapido delle democrazie occidentali; ha una maggiore propensione ad assumersi rischi, anche militari, quando sono in gioco suoi interessi vitali. In altri termini, la Russia detiene ancora un forte potere di condizionamento dell’agenda internazionale. Ed è pronta a usarlo, anche in chiave negativa o interdittiva se utile a tutelare le sue prerogative.

Sotto questo profilo, è rivelatore – ad esempio – il tipo di lettura che Mosca ha offerto della National Security Strategy e della National Defense Strategy approvate dall’Amministrazione Trump nel 2018. Pur ritenendo che quei documenti fossero dominati da sentimenti antirussi, il fatto che nelle loro pagine si additasse Mosca quale minaccia alla sicurezza nazionale e competitor politico e militare di Washington è stato interpretato dalle autorità russe come un riconoscimento indiretto del rango internazionale del proprio Paese. Svanita la possibilità di ottenere uno status di grande potenza attraverso la costruzione – in positivo – di un partenariato “tra eguali” con la Casa Bianca, Mosca ha finito per autocompiacersi – in negativo – di essere un potenziale spoiler degli interessi nazionali americani.

Sfidare gli Stati Uniti e la loro tendenza unilateralista su vari scenari internazionali – dalla Siria all’Iran, dall’Ucraina alla Libia – è diventata pertanto la tattica più semplice da usare per proiettare autonomia e sovranità. Un modo diverso (e per certi versi persino più gradito) di ottenere l’attenzione e il rispetto dell’ “altro”. Di sentirsi protagonista. Qualcosa che, con una divagazione letteraria, fa tornare alla mente le parole di Albert Camus in L’étranger: «Même sur un banc d’accusé, il est toujours intéressant d’entendre parler de soi».

Il rapporto con gli Stati Uniti – con l’“altro” – resta dunque una cartina di tornasole cruciale per identificare la cultura politica della Russia conservatrice. Seguendo il filo di questa traccia e allargando lo sguardo dalla politologia alla filosofia della storia, si può allora sostenere che non potremmo capire la vera portata della “svolta conservatrice” di Putin, se non la raffrontassimo – in controluce – ai valori fondanti della cultura statunitense, quelli riassumibili – per intenderci – nella formula dell’eccezionalismo americano. Abbiamo bisogno cioè di dare rilievo al contrasto ontologico tra Stati Uniti e Russia.

Del resto, «il concetto stesso di originalità, riferito a una cultura, può scaturire solo se accanto a essa – ha osservato Lotman – troviamo un’altra cultura. Se non c’è contrasto, allora non c’è neppure specificità». E il contrasto tra neoconservatorismo russo e valori americani è evidente. Anche perché il primo è nato e si è sviluppato come reazione oppositiva al tentativo di introdurre in Russia i secondi, attraverso le ben note riforme liberaldemocratiche. Il conservatorismo post sovietico ha costruito cioè il proprio profilo identitario come controcultura rispetto alla civiltà americana e alla sua aspirazione universale. Enfatizzare questo contrasto consente pertanto al pensiero tradizionalista di mettere in risalto la specificità della cultura russa.

Russia e Stati Uniti incarnano in effetti due destini universali antitetici, che riflettono due diverse autorappresentazioni nazionali e due diverse visioni del mondo. Per cogliere sino in fondo gli obiettivi della “svolta conservatrice” di Putin, dobbiamo pertanto mettere a confronto il diverso messianismo incarnato da Mosca e Washington.

Da un lato, quello sintetizzato dallo storico Richard Hofstadter sull’America: «È stato il nostro destino come nazione non avere un’ideologia, ma esserne una». Dall’altro, quello espresso dal filosofo Vladimir Solov’ev sulla Russia: «L’idea di una nazione non è ciò che essa pensa di se stessa nel tempo, ma ciò che Dio pensa di essa nell’eternità».

Eccezionalismo americano versus Idea Russa. Due dimensioni difficilmente compatibili poiché espressione di due “popoli eletti”, entrambi portatori di una propria verità dall’ambizione universalista. E se la Russia collega la sua verità e identità alla conversione avvenuta con Vladimiro I e al messaggio universale implicito nell’ortodossia, gli Stati Uniti hanno trasformato il proprio credo civile – Rivoluzione, Dichiarazione d’indipendenza, Costituzione, giorno del Ringraziamento – in una religione laica, cui tutti i popoli dovrebbero convertirsi. Inoltre, mentre alla base dell’ideologia americana vive il mito della rivoluzione, a fondamento di quella russa permane la difesa dell’ordine costituito. L’aspirazione universalista americana a superare il “vecchio regime” per promuovere nel mondo democrazia e libertà si scontra con l’unicità di una civiltà russa che si erge come argine indipendente, ortodosso e sovrano contro omologazione e caos. «Voi avete bisogno di grandi rivoluzioni – aveva ammonito il primo ministro zarista, Stolipyn – noi di una grande Russia».

Affonda proprio in questa incompatibilità tra due diverse missioni storiche la radice culturale dell’incomprensione geopolitica tra Washington e Mosca che ancora oggi – trent’anni dopo la fine della Guerra fredda – affligge il loro rapporto bilaterale. Un’incomprensione che ha preso la forma di una nuova contrapposizione ideologica tra il liberalismo globale incoraggiato dagli Stati Uniti, tanto più con l’arrivo dell’Amministrazione Biden, e il conservatorismo pragmatico di cui si è fatta interprete la Russia di Putin.

Una contrapposizione tra rivoluzione e antirivoluzione. Tra superamento dell’ancien régime e difesa dello status quo. Tra anomia e Kathéchon. Per comprendere meglio il conservatorismo russo dobbiamo in effetti ripartire proprio da qui, da queste contraddizioni e dall’incompatibilità di fondo tra Idea Russa ed eccezionalismo americano.

da “La Russia eterna. Origini e costruzioni dell’ideologia post-sovietica”, di Luca Gori, Luiss University Press, pagine 228, euro 20

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