Ritorno a San SiroLe milanesi di nuovo insieme in Champions League sono l’inizio di un’epoca

Inter e Milan non scendevano in campo negli stessi minuti in Europa dal 2006, quando il calcio era una cosa diversa. Oggi i miliardari innamorati sono stati sostituiti dai manager dell’alta finanza. E anche Milano, mentre riscopre la magia delle notti allo stadio, guarda al futuro

Spada/LaPresse

Quest’autunno, a Milano – la città dove ogni evento è a tiratura limitata, inedito, mai visto prima – torna a succedere qualcosa che non capitava da oltre quindici anni. Parliamo di calcio, e di conseguenza non parliamo solo di calcio ma di costume, cultura, nightlife: Milan e Inter giocano contemporaneamente la stessa sera in Champions League, tre volte il martedì e tre volte il mercoledì.

Le due milanesi non stavano insieme nella più importante competizione calcistica per club dal 2011-2012 e non scendevano in campo negli stessi minuti (com’è successo lo scorso 15 settembre con Liverpool-Milan e Inter-Real Madrid) addirittura da martedì 4 aprile 2006. Per darvi l’idea del tempo che è passato, erano gli ultimissimi fuochi del secondo governo Berlusconi, infuriava la campagna elettorale e quel giorno il presidente del Consiglio uscente, nonché presidente del Milan, aveva rubato la scena con una celebre gaffe (?) alla Confcommercio: «Non penso che ci siano in giro così tanti coglioni che possano votare a sinistra contro i propri interessi». Fu quella una delle prime parolacce en plein air nel dibattito politico, anticipatrice del diluvio di insulti che ci sarebbe piovuto in casa nei quindici anni successivi. 

Oggi Silvio Berlusconi, anima e corpo di Milano per mezzo secolo, è una presenza periferica anche calcisticamente, confinato nel purgatorio della serie B con il Monza, e del resto anche Massimo Moratti è uscito dal gruppo, per il dispiacere dei fedeli cani da riporto assiepati tutti i lunedì mattina sotto l’ufficio, ed è tornato sulle pagine dei giornali per il beau geste, tipicamente morattiano (nel bene e nel male), di regalare un milione e mezzo di euro ai dipendenti della Saras in cassa integrazione.

Il pallone milanese è un gioco di specchi e di doppi fondi: nel Milan Elliott è una realtà già da tre stagioni, mentre nell’Inter gli statunitensi di Oaktree sono intervenuti a maggio per sostenere la boccheggiante Suning, con l’ipotesi di prendere le redini nel 2024. Nessuno dei due club al momento ha grosse chance di riportare in città la Coppa delle grandi orecchie (peraltro Milano è l’unica città ad averla vinta con entrambe le squadre, privilegio mai toccato a Londra né a Madrid né a Manchester né a nessun’altra), ma sono tornati a sedersi a tavola, magari con l’imbarazzata prudenza di scegliere il menu all you can eat invece che quello à la carte, nel pressante desiderio di smetterla di fare il passo più lungo della gamba.

Il paradosso è che non c’è nulla di più moderno e contemporaneo, dunque milanese, di questo: la città più europea d’Italia si adegua all’andazzo corrente in tutto il continente, sostituendo i vecchi tycoon di cui sopra con un’alta finanza senza troppa anima né competenza calcistica, che però vuole assicurare stabilità economica e ragiona di asset finanziari, plusvalenze e nuovi stadi, scontrandosi in quest’ultimo caso con la cautela di un’amministrazione sotto elezioni. Prima domanda del tifoso consapevole: che cos’è meglio nel 2021, il miliardario innamorato e spendaccione o il manager rigoroso che vieta di offrire ai Donnarumma, ai Çalhanoğlu e ai Kessié un euro in più del limite consentito, anche a costo di perderli a zero? Che milanesi siete, di quelli che progettano o di quelli che sognano? 

Non è detto che le due cose non possano coincidere, nel calcio più che mai, dove le dinastie e le gerarchie sono mobili qual piuma al vento. Nonostante i campioni migrati quest’estate in direzione Londra e Parigi a causa della congiuntura sfavorevole, Milano è tornata a lucidare credenziali solidissime, a cominciare dal suo monumento, che un celebre articolo del Times del 2009 elesse a secondo stadio più bello del mondo dopo il Westfalenstadion di Dortmund: «Quando di notte si illumina, San Siro sembra una nave spaziale atterrata nella periferia milanese».

Persino dell’anonimo Museum, un parallelepipedo piuttosto spartano che non ha nulla di diverso da un container e francamente non è all’altezza dei suoi omologhi europei e mondiali, si stima che sia il secondo luogo più visitato di Milano dopo il Cenacolo Vinciano.

C’è una tale voglia di San Siro che due settimane fa, quando il Milan ha reso noto il costo dei biglietti per le tre partite di Champions – una cifra spropositata, ritirata in meno di ventiquattr’ore e successivamente ricalibrata verso il basso – una non trascurabile frangia di social-commentatori difendeva comunque la scelta: è giusto così, è il prezzo da pagare, abbiamo aspettato otto anni, e poi le notti di Champions a San Siro…

Il dibattito sul nuovo stadio tornerà a infuriare dopo le elezioni, c’è da scommetterci, soprattutto quando anche l’Inter avrà ritrovato una nuova stabilità. È il nervo scoperto più grande della città, perché mette contro la necessità del progresso e il romanticismo, la voglia di futuro e la tradizione, la sostenibilità e la grandeur che flirta con la megalomania: tutte cose senza le quali Milano sarebbe, semplicemente, un posto qualunque.

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