Da quando i talebani hanno governato l’Afghanistan negli anni Novanta il paese è cambiato molto. Negli anni dell’Emirato islamico, quello che ora è stato reintrodotto dal governo di Hasan Akhund, la popolazione e l’economia si misuravano su un’altra scala: nel 1997, per esempio, il budget del governo afghano corrispondeva soltanto a 80mila euro attuali. Nel 2020 le finanze a disposizione del governo di Kabul erano salite a 4,8 miliardi di euro, senza contare le spese militari.
Oggi, con un paese così diverso rispetto a vent’anni fa, il governo talebano affronta quella che è, evidentemente, la sua sfida più difficile: finanziarsi e sopravvivere. L’obiettivo rischia di essere fuori portata per diversi motivi. Il primo è che, nonostante il paese sia completamente cambiato, le persone appena salite al potere sono spesso le stesse che governarono durante il primo governo talebano (il Mullah Baradar, quello che oggi viene inserito dalla rivista Time tra i 100 leader più influenti al mondo, per esempio, è uno dei quattro uomini che fondarono i talebani nel 1994). Il secondo motivo è che ci sono due crisi in corso che non possono che creare scontento e frustrazione tra la popolazione: la prima è dovuta al clima che sta subendo bruschi cambiamenti per via del riscaldamento globale, con intere zone del paese che subiscono siccità estrema e sono costrette a una conseguente scarsità di cibo. La seconda è dovuta alla pandemia, perché anche qui il nuovo coronavirus ha impattato molto, sia direttamente sia indirettamente, sull’economia.
Le opzioni per mantenere i conti e il paese in ordine, stando a quanto sostiene chi ha studiato per lungo tempo le finanze talebane, come Hanif Sufizada, sono solo cinque. La prima è il narcotraffico (l’Unodc stima che il 90 per cento dell’eroina venduta nel mondo venga dall’Afghanistan), la seconda è quella di fare cassa tassando soprattutto le merci che varcano le frontiere del paese. Fare affidamento sugli aiuti degli Stati occidentali – opzione che per ovvie ragioni sembra poco probabile – oppure contare sugli aiuti di paesi vicini o con interessi specifici nell’area come il Pakistan, ma anche la Russia, il Qatar, la Cina e l’Iran. Questa, al momento, è l’opzione più quotata. Il punto, però, è cosa chiederanno questi paesi in cambio di sostegno economico: con tutta probabilità l’accesso alle risorse minerarie dell’Afghanistan, che sono immense e quasi per nulla sfruttate.
Queste risorse minerarie, che, almeno in teoria, sono a disposizione del governo talebano, hanno un valore che è stimate tra i mille e i tremila miliardi di euro e comprendono tra le altre cose litio, cobalto, rame e ferro, oltre agli idrocarburi. Sono milioni di tonnellate di inquinanti, certo, ma anche materie prime di cui c’è enorme bisogno nell’industria tecnologica: ed è per questo che la Cina, come scrive Zhou Bo sul New York Times, sembra essere il candidato più probabile per fare affari commerciali con Kabul (i precedenti non mancano, un esempio su tutti: è cinese la prima azienda ad aver estratto petrolio in Afghanistan).
Il paese centro-asiatico, in questo senso, corre rischi ambientali. Innanzitutto all’estrazione di materie prime in grandi quantità corrisponde una proporzionale crescita dell’inquinamento del suolo. L’industria mineraria infatti impatta severamente soprattutto su corsi d’acqua e falde acquifere, compromettendo sia l’agricoltura sia la qualità della vita degli abitanti. E questo inquinamento è particolarmente probabile se il territorio da cui si estrae è soggetto ad alti tassi di corruzione e se tra chi lo amministra (i talebani) e gli enti che portano avanti l’estrazione (la Cina) c’è uno squilibrio di potere in favore dei secondi. Si dà il caso che entrambe le circostanze siano proprio queste.
Ma c’è anche il cosiddetto “import of waste”, cioè, letteralmente, l’importazione rifiuti. Per quanto sia controintuitivo, importare milioni di tonnellate di immondizia, può essere decisamente redditizio. Le mafie italiane si occupano da anni di questi traffici (sono famosi i roghi nella cosiddetta Terra dei fuochi in Campania) e più o meno l’iter è sempre quello: per chi esporta i rifiuti c’è un enorme risparmio perché, rispetto alle normali procedure di smaltimento, alcuni li prendono in carico per importi decine o centinaia di volte inferiori. Per chi i rifiuti li importa, invece, il guadagno viene da non mettere in pratica nessuna procedura di trattamento: i rifiuti li si sotterra e li si dimentica lì per sempre.
Il mercato dei rifiuti è sempre più spesso transfrontaliero e i camion viaggiano per migliaia di chilometri perché i prezzi variano notevolmente. Succede anche in Europa, e non solo nei territori controllati dalle mafie: la Polonia, per esempio, è il paese dell’Ue che importa più rifiuti, con effetti molto seri sull’ambiente e sulla salute dei propri cittadini. E non è un caso che la Polonia sia allo stesso tempo uno dei paesi europei che per finanziarsi fa più affidamento sull’industria estrattiva: le cave e la logistica di questo commercio si sposano particolarmente bene con l’import di rifiuti. E questo ci riporta al caso afghano.
Accedere alle risorse minerarie afghane, però, non sarà così facile. Per farlo servono molte condizioni particolari. Due su tutte: la sicurezza per i cantieri e i lavoratori che verrebbero impiegati e la presenza di infrastrutture per il trasporto delle merci. Sono condizioni che oggi, l’Afghanistan, non può vantare. Ecco perché vale la pena chiedersi se potrà averle in futuro, magari proprio grazie al ruolo della Cina.
L’Afghanistan potrebbe avere un ruolo importante nel progetto cinese di investimenti esteri, la Nuova via della seta, che ha già un’importante diramazione in Pakistan e che avrebbe grandi benefici strategici ed economici se si espandesse ulteriormente nell’area dell’Asia centrale. Per di più le aziende cinesi hanno ormai una tradizione di grandi investimenti nei paesi in via di sviluppo, come dimostrano numerosi casi in Africa. Il commercio sino-africano ha toccato i 200 miliardi di dollari nel 2019, facendo di Pechino il primo partner commerciale del continente.
Nel caso in cui gli interessi talebani e quelli di Pechino trovassero davvero uno sbocco comune nell’industria mineraria, oltre alla diplomazia e alla politica, si riproporrebbe il tema ambientale. Se non altro perché l’impatto che l’attività estrattiva avrebbe sul paese ricadrebbe, attraverso le infiltrazioni nelle falde acquifere e la conseguente compromissione dell’agricoltura, soprattutto sui cittadini afghani, sommandosi alla siccità e agli enormi problemi causati dal cambiamento climatico. Problemi che, secondo molti analisti, hanno già alimentato lo scontento, contribuendo a riportare il paese in mano ai talebani.