Ancora una settimana, in teoria, o forse qualcosa in più se la politica ci metterà lo zampino. E quando si tratta del Monte dei Paschi di Siena la politica non tiene mai le mani a posto. Era il 29 luglio quando l’amministratore delegato di Unicredit Andrea Orcel ha fatto un annuncio che più telefonato non si può: a Piazza Gae Aulenti, sede della banca meneghina, il Monte in fondo non dispiace. Non proprio una sorpresa. Da quel momento si è aperta una finestra di 40 giorni per Unicredit, 40 giorni in cui entrare in via esclusiva in sala macchine (la data room), verificare tutti gli ingranaggi e formulare un’offerta per acquisire il 64,23% del capitale del Montepaschi, al momento nella pancia del governo italiano. Questi 40 giorni scadranno la prossima settimana.
Venditore e acquirente sembrano entrambi piuttosto motivati. Il Tesoro ha a disposizione solo quattro mesi per uscire dalle secche in cui si è invischiato nel 2017 rilevando la maggioranza di Mps con più di 5 miliardi dei contribuenti: le autorità europee non intendono infatti prorogare il termine del 31 dicembre per la cessione di quella quota, e il governo tiene molto a mantenere la parola data alla Commissione. Soprattutto per rafforzare la credibilità internazionale che ha così faticosamente riguadagnato.
Unicredit dal canto suo punta alla rincorsa del primatista tra gli istituti bancari italiani, Intesa Sanpaolo, che dall’acquisizione di Ubi Banca in avanti ha giocato in un’altra lega, con una capitalizzazione di mercato doppia rispetto alla banca milanese (46 miliardi contro 23). Certo, anche la dote di 2,2 miliardi in crediti fiscali messa sul tavolo dal governo per l’eventuale compratore fa gola. Ma anzitutto Unicredit, dopo una serie di cessioni straordinarie inanellate – da Fineco alla quota in Mediobanca – e una riorganizzazione interna a tratti vorticosa, ha bisogno di ritrovare slancio e diversificare la propria struttura di ricavi, in uno scenario competitivo in cui le banche per sopravvivere non possono che aggregarsi.
D’altra parte, Unicredit è anche l’unica realtà con le spalle sufficientemente larghe per digerire le parti pregiate di un complesso come Mps, attanagliato da oltre un decennio di crisi irreversibile e costretto a ricapitalizzarsi per quasi 20 miliardi per fare fronte alle perdite.
Le parti pregiate, appunto. Perché Andrea Orcel una cosa l’ha messa in chiaro fin dall’inizio: le fette del Monte meno appetibili, quelle che richiederebbero un lungo periodo di gestione per tornare sane, lui proprio non se le vuole accollare. E così i crediti deteriorati – quei non-performing loans che ben poche speranze hanno di essere ripagati dai debitori – sono destinati a essere ceduti ad Amco, la società pubblica di gestione e recupero crediti da tempo entrata nel negoziato (e recentemente anche nella data room di Mps). Senza contare poi lo schema per neutralizzare le magagne legali che farebbe parte anch’esso della trattativa: Unicredit esige infatti una tutela per tutti i rischi legali straordinari, ossia le pregresse pretese di risarcimento che sono arrivate a pesare per 10 miliardi di euro.
Quanto ai 1.400 sportelli del Montepaschi, certamente Orcel non ha intenzione di tenerseli tutti: l’interesse è soprattutto per quelli nel Centro-Nord, il 77 per cento delle agenzie di Mps. Ed ecco allora che entra in partita Mediocredito Centrale (Mcc), l’istituto pubblico controllato al 100% da Invitalia (sotto il ministero dell’Economia), che l’anno scorso ha assorbito la Popolare di Bari in stato prefallimentare.
Il Monte ha confermato l’ingresso nella sua data room anche di Mcc, che sarebbe pronto a inglobare buona parte degli sportelli del Sud se l’operazione con Unicredit andrà in porto. Si tratterebbe all’incirca di 150 filiali, perlopiù in Sicilia, dove Unicredit ha già una quota di mercato del 22 per cento che non potrebbe oltrepassare per ragioni di concorrenza.
Ma è solo una questione di sportelli, secondo fonti sentite da Linkiesta. Non ci sarebbe invece interesse da parte di Mcc, come ha scritto qualcuno nei giorni scorsi, per le attività corporate della banca: la casa d’affari Capital Services, il leasing, il centro informatico o le altre attività accessorie. Tutto questo non rientrerebbe nel piano industriale di Mediocredito Centrale, al momento concentrato sulla razionalizzazione del sistema creditizio del Mezzogiorno e sul rilancio della Popolare di Bari. Tantomeno Mcc sarebbe disposto a rilevare lo storico marchio Montepaschi e a operare sotto la sua insegna, sempre da quanto risulta a Linkiesta. Eliminare un «fastidio» a Unicredit non fa parte della sua missione.
Una faccenda, quella della difesa del marchio, tutt’altro che estetica, essendo Mps la banca più antica del mondo ancora in attività (dal 1472). Faccenda in cui peraltro si incrociano inevitabilmente interessi politici.
Il segretario del Partito Democratico Enrico Letta – che corre proprio a Siena per le elezioni suppletive alla Camera del 3-4 ottobre – ha dichiarato in questi giorni che «Mps non è un marchio semplicemente di natura finanziaria, il legame con il territorio e i lavoratori è parte integrante della forza» di Mps. E non è stato l’unico. L’ennesimo asset da salvare a ogni costo dunque, ma Orcel non si straccerà le vesti per farlo. Tanto più che immaginare di ribattezzare la rete commerciale di Unicredit con il brand Montepaschi suona quantomeno stravagante, anche perché solo in Toscana e in alcune aree dell’Italia centrale Mps ha mantenuto inalterato il suo prestigio.
L’ipotesi più plausibile è che la continuità del marchio sia garantita dalla Fondazione Mps, che potrebbe avere un ruolo nelle attività culturali: il gruppo senese vanta un immenso patrimonio storico e artistico, e Unicredit tra l’altro ha annullato recentemente il programma di dismissione della propria collezione d’arte.
Ma il nodo più spinoso da sciogliere è forse quello dell’eccesso di personale, un’operazione ancora tutta da costruire e su cui i sindacati minacciano uno sciopero. Sugli oltre 21mila dipendenti del Monte si stimano 5-6mila esuberi e si prospettano tagli di almeno 15 lavoratori nelle sedi dei grandi capoluoghi di provincia. A cui Unicredit potrebbe aggiungere mille o duemila dei suoi, grazie alle famose sinergie. A oggi, il costo degli esuberi dovrebbe essere sostenuto dal Tesoro – e quindi dai contribuenti – nell’ambito di un possibile aumento di capitale di 2-2,5 miliardi, propedeutico all’integrazione.
Ancora una settimana alla scadenza dei quaranta giorni, in teoria, ma i giochi sembrano tutt’altro che fatti e il negoziato potrebbe ragionevolmente essere esteso. Senza contare poi le ingerenze della politica, appunto.
La parata elettorale per le suppletive potrebbe portare a un rallentamento strumentale delle operazioni fino alla chiusura delle urne. Più difficile, in effetti, farsi eleggere a Siena con i cori delle proteste per i tagli al personale del Monte fuori dai seggi. Più facile invece raccontare una storiella sull’inviolabilità del marchio e attendere le conseguenze dell’integrazione una volta conquistato il sedile in Parlamento.