Tratto dall’Accademia della Crusca
È ormai divenuto molto alto il numero dei quesiti pervenutici su temi legati al genere: uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili; possibilità per l’italiano di ricorrere a pronomi diversi da lui/lei o di “recuperare” il neutro per riferirsi a persone che si definiscono non binarie; genere grammaticale da utilizzare per transessuale e legittimità stessa di questa parola. Cercheremo in questo intervento di affrontare le diverse questioni.
Risposta
Premessa
Le domande che ci sono state poste sono tante e toccano argomenti abbastanza diversi tra loro. Abbiamo preferito raccoglierle tutte insieme perché c’è un tema di fondo che le accomuna: la questione della distinzione di genere, anche al di là della tradizionale opposizione tra maschile e femminile. Anzitutto, due precisazioni: 1) tratteremo esclusivamente delle questioni poste dalle varie domande che ci sono pervenute, senza tener conto dei numerosissimi interventi sul tema, che ormai da vari mesi alimenta discussioni e polemiche anche molto accese sulla stampa e soprattutto in rete; 2) la nostra risposta investe il piano strettamente linguistico, con riferimento all’italiano (non potrebbe essere che così, del resto, visto che le domande sono rivolte all’Accademia della Crusca, ma ci pare opportuno esplicitarlo). Ci sembra doveroso premettere ancora una cosa: la maggior parte di coloro che ci hanno scritto – anche chi esprime la propria contrarietà all’uso di asterischi o di altri segni estranei alla tradizionale ortografia italiana – si mostra non solo contraria al sessismo linguistico e rispettosa nei confronti delle persone che si definiscono non binarie, ma anche sensibile alle loro esigenze. E questo è senz’altro un dato confortante, che va messo in rilievo.
Genere naturale e genere grammaticale
Per impostare correttamente la questione dobbiamo dire subito che il genere grammaticale è cosa del tutto diversa dal genere naturale. Lo rilevavano nel 1984, a proposito del francese, Georges Dumézil e Claude Lévi-Strauss, incaricati dall’Académie Française di predisporre un testo su “La féminisation des noms de métiers, fonctions, grades ou titres” (‘la femminilizzazione dei nomi di mestieri, funzioni, gradi o titoli’). Non entriamo qui nella tematica della distinzione tra sesso biologico e identità di genere, su cui torneremo, almeno marginalmente, più oltre; ci limitiamo a ricordare che negli studi di psicologia e di sociologia il genere indica l’“appartenenza all’uno o all’altro sesso in quanto si riflette e connette con distinzioni sociali e culturali” (questa la definizione del GRADIT); tale accezione del termine, relativamente recente, è calcata su uno dei significati del corrispondente inglese gender, quello che indica appunto l’appartenenza a uno dei due sessi dal punto di vista culturale e non biologico (gli studi di genere o gender studies sono nati negli Stati Uniti negli anni Settanta, su impulso dei movimenti femministi).
Che il genere come categoria grammaticale non coincida affatto con il genere naturale si può dimostrare facilmente: è presente in molte lingue, ma ancora più numerose sono quelle che non lo hanno; può inoltre prevedere, nei nomi, una differenziazione in classi che in certi casi non sfrutta e in altri va ben oltre la distinzione tra maschile e femminile propria dell’italiano (dove riguarda anche articoli, aggettivi, pronomi e participi passati) perché, oltre al neutro (citato in molte domande pervenuteci, evidentemente sulla base della conoscenza del latino), esistono, in altre lingue, vari altri generi grammaticali, determinati da criteri ora formali ora semantici; infine, come avviene in inglese, può limitarsi ai pronomi, senza comportare quell’alto grado di accordo grammaticale che l’italiano prevede.
Neppure in italiano si ha una sistematica corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie (abbiamo coppie come il padre e la madre, il fratello e la sorella, il compare e la comare, oppure il maestro e la maestra, il principe e la principessa, il cameriere e la cameriera, il lavoratore e la lavoratrice, ecc.), ma questo non vale sempre: guida, sentinella e spia sono nomi femminili, ma indicano spesso (anzi, più spesso) uomini, mentre soprano e contralto sono, tradizionalmente almeno (oggi il femminile la soprano è piuttosto diffuso), nomi maschili che da oltre due secoli si riferiscono a cantanti donne.
Arlecchino è una maschera, come Colombina (anche se Carlo Goldoni nelle Donne gelose gli fa usare il maschile màscaro e nei Rusteghi le donne in scena parlano di màscara omo per riferirsi al conte Riccardo e si rivolgono con siora màscara dona a Filippetto, entrato a casa di Lunardo in abiti femminili), mentre Mirandolina è un personaggio, come il Cavaliere di Ripafratta, che di lei si innamora. Vero è che nel parlato spostamenti di genere nell’àmbito dei nomi in rapporto al sesso del referente ci sono stati: da modello si è avuto modella (cfr. Anna M. Thornton, La datazione di modella, in “Lingua nostra”, LXXVI, 2015, pp. 25-27); si parla di un tipo ‘un tale’ ma anche di una tipa (Miriam Voghera, Da nome tassonomico a segnale discorsivo: una mappa delle costruzioni di tipo in italiano contemporaneo, in “Studi di Grammatica Italiana”, XXIII, 2014, pp. 197-221); accanto a membro si sta diffondendo membra (Anna M. Thornton, risposta nr. 7, in “La Crusca per voi”, 49, 2014, pp. 14-15); dall’altra parte, dal femminile figura deriva il maschile figuro (ma con una connotazione negativa). Abbiamo poi i cosiddetti nomi “di genere comune”, che non cambiano forma col cambio di genere, perché la distinzione è affidata agli articoli nei casi di cantante, preside, custode, consorte, coniuge (con cui molti di noi hanno familiarizzato attraverso la denuncia dei redditi, che parla ellitticamente di dichiarante e di coniuge dichiarante senza precisare i rispettivi sessi).
Passando al mondo animale, distinguiamo, è vero, il montone o ariete e la pecora (ma il plurale le pecore si riferisce spesso al gregge e comprende quindi anche i montoni), il gatto e la gatta, il gallo e la gallina, il leone e la leonessa, ma nella maggior parte dei casi il nome, maschile o femminile che sia, indica tanto il maschio quanto la femmina (la lince, il leopardo, la iena, la volpe, il pappagallo, la gazza, il gambero, la medusa, ecc., nomi che la tradizione grammaticale indica come “epiceni”; lasciamo da parte l’esistenza di formazioni occasionali come il tartarugo e il ricorso non alla flessione, ma alla tecnica analitica, come in la tartaruga maschio, che è sicuramente possibile, ma marginale all’interno del sistema). Quanto alle cose inanimate, è evidente che il genere femminile di sedia, siepe, crisi e radio e il maschile di armadio, fiore, problema e brindisi non si possano legare in alcun modo al sesso, che le cose naturalmente non hanno.