Se nel suo studio di settore dello scorso maggio Standard & Poor’s aveva ipotizzato per quest’anno una crescita della produzione di auto nell’ordine dell’8-10%, nell’ultima e più recente edizione l’agenzia di rating ipotizza che il recupero sarà più lento del previsto. Secondo gli analisti, infatti, la crescita sarà soltanto del 2-4% quest’anno e del 4-6% nel 2022.
La causa principale di questo rallentamento è l’oramai nota crisi del microchip in corso da qualche tempo, che si è tuttavia aggravata durante l’estate anche per via di un’ondata di contagi della variante delta del coronavirus, che ha generato un impatto negativo sulla produzione di semiconduttori.
Un calo considerevole, quindi, che si attesta intorno ai 5 milioni di esemplari in meno rispetto agli 83-85 milioni stimati per il 2022, dovuto anche al permanere in una condizione di debolezza del quadro macroeconomico. Nondimeno, a livello regionale le stime dell’agenzia di rating indicano che quest’anno in Cina saranno vendute 24,9 milioni di auto (+2% sul 2020), in Europa 16,9 milioni (+2%), negli Stati Uniti 15,8 milioni (+9%) e 22,1 milioni nel resto del mondo (+1%).
C’è da dire che comunque, pur in presenza di una crescita inferiore alle attese, S&P ritiene che non ci saranno effetti negativi sul rating dei costruttori, i cui conti attualmente sono peraltro positivi grazie anche ai fermi produttivi, che contribuiscono a ridurre gli stock e a contenere la sovra-capacità produttiva.
In questo scenario si inserisce una tendenza raccontata recentemente dal Wall Street Journal, il quale afferma che le case automobilistiche stanno concentrando le limitate quantità di componenti che hanno a disposizione a favore dei modelli di autovetture che garantiscono entrate più alte.
In buona sostanza i produttori di auto, ma anche le aziende che producono altri manufatti, in risposta alle difficoltà che le attività manifatturiere e le spedizioni stanno vivendo per via della crisi globale delle forniture, scelgono di favorire i loro prodotti più costosi e quindi più redditizi a svantaggio di quelli meno cari e meno profittevoli. Una mossa che permette di assorbire meglio l’aumento dei costi delle materie prime e delle spedizioni, ma anche un atteggiamento che determina il reperimento di prodotti più economici difficile se non addirittura impossibile.
Se General Motors blocca la produzione del suo modello di fascia media per favorire la fabbricazione dei suv più costosi è poi consequenziale che negli Stati Uniti il prezzo medio di un veicolo venduto nel settembre scorso sia stato di 42.800 dollari, in aumento del 19% rispetto a quello medio dello stesso mese dell’anno precedente. Al di là di ogni possibile banalizzazione e di ogni facile moralismo, il tempo del “profitto prima di tutto” è ancora prorogabile? E per quanto?
La pandemia non solo ha messo a fuoco le annose, grandi e gravi disuguaglianze in tutto il mondo e non solo relativamente all’accesso all’assistenza sanitaria e ai prodotti sanitari, ma ne ha esacerbato il trend di crescita. E tuttavia il mondo continua a seguire lo stesso paradigma economico che non cambia, anzi applica un pensiero obsoleto oltre che dannoso.
Il quesito più attuale, perché sempre più necessario, da sposare e diffondere è quindi: sono ancora queste le logiche che ci potranno portare prosperità e ci faranno crescere ancora dopo l’attuale crisi? Può il lavoro di un’azienda consistere unicamente nel creare ricchezza per gli azionisti a spese di qualunque altra cosa? Non è oramai comprovato trattarsi di una strategia miope dato che non consente all’azienda stessa di durare nel tempo? Oppure esistono dinamiche non sottrattive, di tipo win-win, che oltre a portare benefici ai singoli lo fanno anche al mondo nel suo complesso?
Ricordiamoci che anche se non siamo a capo di grandi multinazionali, ricopriamo tutti un ruolo attivo nella società, e spesso anche in un’azienda o in una qualsiasi organizzazione: chiediamoci allora che ruolo intendiamo giocare noi, personalmente, in quest’epoca di transizione.