A Praga la storia politica procede di pari passo con le stagioni. L’esempio migliore è stato la primavera del 1968, ma anche il prossimo autunno, in piccolo, lo sarà: l’8 e il 9 ottobre sono infatti in programma le elezioni parlamentari. Un momento che le più alte cariche statali attendono con un misto di impazienza e paura: c’è infatti il pericolo che dalle urne esca fuori una maggioranza estremamente debole.
Su chi la guiderà non ci sono dubbi: in un modo o in un altro sarà ancora il premier Andrej Babis, leader di ANO, a guidarla, grazie anche all’appoggio del presidente della Repubblica Milos Zeman. Troppo debole e frammentata l’opposizione, come dimostrano anche i sondaggi di POLITICO Europe che assegna loro soltanto il secondo e il terzo posto, dietro il partito del premier.
Il come governerà Babis è però ancora tutto da scrivere, visto che potrebbe aver bisogno dell’appoggio degli euroscettici, che, come prima condizione, porrebbero la possibilità di tenere un referendum popolare per sancire la “Czexit”, l’uscita della Repubblica Ceca dall’Unione europea.
Un premier incerto
Un passo a cui Babis potrebbe dover essere costretto. I tempi del 2018, quando riuscì a formare un governo grazie all’accordo con il partito socialdemocratico e l’appoggio esterno dei comunisti, sembrano ormai andati per il “Donald Trump” di Praga, chiamato così per l’impero mediatico che è riuscito a mettere in piedi in pochi anni.
Babis è infatti un imprenditore che ha legato il suo nome tanto al mondo agricolo – essendo proprietario al 100% di Agrofert, azienda leader nel settore in Europa Centrale – quanto a quello dei media, visto che ha reinvestito i guadagni nell’acquisto di tre quotidiani, un settimanale e svariati siti web prima di scendere in politica.
Un passaggio che gli ha anche causato parecchi problemi: come ha accertato la Corte di giustizia europea Babis avrebbe sfruttato il suo ruolo politico per far ottenere ad Agrofert fondi europei. Come se non bastasse c’è anche una diatriba familiare attualmente in corso: il premier è infatti in guerra con suo figlio, Andrej Babis jr, che lo accusa di aver nascosto la proprietà di una fattoria e di un centro congressi, chiamato Stork Nest, che avrebbe ricevuto due milioni di euro di fondi europei.
La risposta di Babis senior è stata netta: «È un malato di mente e prende farmaci. Deve essere sorvegliato», proclamandosi così innocente e respingendo le accuse. Per difendersi il modo migliore è attaccare: non è perciò un caso che Babis abbia incentrato la sua campagna sull’offensiva contro le istituzioni europee.
«Difenderò la nostra sovranità. Lottiamo contro il fanatismo dei neomarxisti immaturi al Parlamento europeo», ha twittato il premier, attaccando Bruxelles. Non si è fermato qui: in tandem con l’omologo ungherese, Viktor Orban, ha negato l’accesso ai giornalisti di ARD, Le Monde e Die Zeit alla conferenza stampa congiunta dello scorso mercoledì.
Non una novità per la stampa che opera in Repubblica Ceca, spesso sottoposta a forti pressioni da parte dell’esecutivo e costretta a vedersi negata l’accredito senza alcuna ragione. Ciò che però sorprende è però l’atteggiamento della famiglia europea di Babis, Renew Europe, che si scaglia contro Orban ma poi utilizza con Babis lo stesso atteggiamento usato in precedenza dal Partito Popolare europeo con il leader ungherese.
La strategia di Babis finora non ha pagato: secondo gli ultimi sondaggi ANO è sempre in testa con il 26% delle preferenze, seguito dalla coalizione conservatrice SPOLU e dalla lista dei Pirati e dei sindaci, ferme rispettivamente al 21% e al 19%. Gli alleati storici di Babis, i socialdemocratici e i comunisti, sono invece bloccati al 5% e rischiano di non entrare a Palazzo Thunovsky, sede della Camera dei Deputati ceca.
L’uomo nuovo
Chi invece ci entrerà, tanto alla Camera quanto, probabilmente, al governo, è Tonio Okamura, leader del movimento Libertà e Democrazia diretta (SPD) dai forti connotati euroscettici. I sondaggi gli accreditano un ottimo 11% che, visti i risultati degli altri alleati e visto che SPOLU e Pirati non vogliono coalizzarsi con ANO, potrebbe tornare più che utile a Babis. Il prezzo da pagare potrebbe però essere molto salato.
«Una delle condizioni fondamentali per qualunque alleanza è che il programma del prossimo governo includa una legge referendaria che permetta di indire un referendum sull’uscita dall’Unione Europea o potenzialmente dalla NATO», ha dichiarato Okamura dopo un incontro con il presidente Zeman.
Il tema è piuttosto controverso nel paese: un sondaggio di opinione dell’agenzia CVVM a luglio ha mostrato che il 66% dei cechi sostiene l’adesione all’Unione mentre il 28% preferisce l’uscita. Si sa però che, come in qualunque altra campagna elettorale, le percentuali possono sempre cambiare e, comunque, l’indizione di un simile referendum sarebbe una vittoria per Okamura, la cui carriera politica è stata finora sempre un crescendo.
Dagli inizi nel 2013 con il 7% dei voti del suo ex partito, Alba della Democrazia Diretta, è riuscito a portare la sua nuova formazione politica, nata nel 2015, a un incredibile quarto posto nelle elezioni del 2017, in cui ha ottenuto il 10,64% dei voti. L’eventuale ingresso nel governo sarebbe difatti l’epilogo di una scalata che ha dell’incredibile.
Un presidente burattinaio
Pur di mantenere Babis al potere infatti è possibile anche l’ingresso di un simile personaggio al governo. Un’investitura che il presidente Zeman farebbe senza grossi problemi. Come ha già lasciato intendere, il presidente darà la possibilità ad ANO di formare un nuovo governo, vista la poca simpatia che nutre per i cartelli elettorali dell’opposizione, che darebbero oltretutto fastidio alla politica estera dello stesso presidente.
Le alleanze della Repubblica Ceca con Russia e Cina degli ultimi anni sono state infatti merito (o demerito) dello stesso Zeman, che ha spinto per portare Praga sempre più a est, lontano da Bruxelles. Eppure, da un po’ di tempo, le cose sembrano essere cambiate visto che i rapporti con Mosca e Pechino hanno subito brusche frenate.
Con la Cina il rapporto è certamente eccellente e i dissidi non riguardano tanto i motivi politici (infatti Zeman ha appena annunciato che nel 2022 andrà nuovamente in visita a Pechino, la sesta volta da quando è diventato presidente nel 2013) quanto la gelosia: il governo cinese aveva infatti promesso di investire in Repubblica Ceca ma non lo ha mai fatto nella misura prevista.
Sarebbe appena un miliardo di euro la cifra investita in Repubblica Ceca, una miseria se confrontato a quanto versato nella vicina Ungheria. Per questo Zeman è arrivato addirittura a minacciare di boicottare il forum “17+1”, che la Cina tiene solitamente con i paesi dell’Europa centrale e orientale.
«Non credo che la parte cinese abbia fatto ciò che aveva promesso», sono state le parole del presidente ceco, che però poi non solo ha ritirato le minacce ma ha anche fatto la guerra sia a Milos Vystrcil, presidente del Senato ceco, che si era recato in visita a Taiwan, che ai servizi segreti nazionali, che avevano messo in guardia sui pericoli cinesi.
Il governo si è spesso trovato in mezzo tra le spinte pro-est di alcuni esponenti e quelle pro-ovest di altri: uno che ne ha fatto le spese è stato per esempio Tomas Petricek, ministero degli Esteri fino ad aprile di quest’anno, quando è stato fatto probabilmente dimettere per le sue spinte occidentali e il suo tentativo di avvertire dei pericoli causati da Cina e Russia.
Anche con Mosca la situazione è rimasta a lungo rosea, fino a quando Babis non ha cacciato due agenti dell’intelligence russa con l’accusa di essere responsabili delle esplosioni di una fabbrica di munizioni del 2014. Da lì i rapporti si sono deteriorati ma l’amicizia tra Zeman e Putin resta ben salda.
La situazione è perciò intricata, come dimostrano anche le opposizioni. Un punto ben evidenziato dal manifesto dei Pirati e sindaci, che sottolinea come «la discrepanza nella politica estera tra il presidente, il primo ministro, il ministro degli Esteri e altri attori sia dannosa». Soltanto un loro buon risultato potrebbe aiutare a risolverla.