L’energia nucleare continua a dividere l’Europa sulla scelta della strada da seguire nel processo di decarbonizzazione imposto dagli obiettivi dell’agenda Onu per il 2030. Da una parte il gruppo a favore dell’atomo, capeggiato dalla Francia (che soddisfa il 70% del suo fabbisogno energetico tramite il nucleare), accompagnata da Repubblica Ceca, Bulgaria, Croazia, Finlandia, Ungheria, assieme a Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia. Dall’altra parte il fronte dei contrari, i paesi che non riconoscono la sostenibilità dell’energia nucleare, e dunque non la classificano come green.
Questo secondo raggruppamento vede nella Germania il suo principale esponente – dove a seguito dell’incidente di Fukushima del 2011 è stata portata avanti una campagna di denuclearizzazione dell’intero territorio nazionale – a cui si sono accodati anche paesi come Spagna, Austria, Danimarca e Lussemburgo. L’esempio tedesco è particolarmente significativo: negli ultimi 10 anni sono entrati in fase di dismissione 26 impianti e si prevede che gli ultimi 6 ancora in funzione verranno spenti definitivamente entro la fine del 2022.
Un’inversione di rotta drastica e improvvisa, se si pensa che nel 2010 – un anno prima della crisi della centrale in Giappone – il nucleare contribuiva al 20% dell’energia del paese, contro il 17% delle rinnovabili. Mentre l’anno scorso queste ultime coprivano il 45% del fabbisogno nazionale, a discapito dell’11% dell’atomo.
Ma nello scenario internazionale il settore dell’energia nucleare continua a svolgere un ruolo primario per la sopravvivenza di molte nazioni e trova sostenitori in diversi angoli del pianeta.
Oggi costituisce la principale fonte di energia elettrica dell’Unione Europea, con un contributo pari al 30% sul totale fabbisogno del continente – il 10% su quello mondiale – e sono oltre 50 i paesi in tutto il mondo a sfruttare questa tecnologia attraverso 440 reattori di potenza e 220 reattori di ricerca adibiti alla produzione di isotopi a scopo medico e industriale.
ln Italia – unica nazione appartenente al G8 che non possiede impianti nucleari – ben il 10% del consumo nazionale di elettricità deriva dalle importazioni francesi.
Attualmente in 19 nazioni del mondo sono in costruzione circa 50 nuove centrali nucleari, per un totale di circa 54 Gigawatt elettrici di potenza. Negli Stati Uniti, il co-fondatore di Microsoft Bill Gates sta portando avanti una campagna per promuovere la realizzazione di nuovi reattori di ultima generazione, più piccoli, efficienti e convenienti – di concezione analoga a quelli che nei 50 anni appena trascorsi hanno alimentato le portaerei e i sottomarini americani senza incidenti di sorta – e con la sua compagnia TerraPower ha già annunciato la prossima creazione di un impianto di questo tipo nello stato del Wyoming.
Di recente sempre gli States hanno espresso il loro appoggio sul report che illustra il ruolo critico dell’energia nucleare nel raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, rilasciato lo scorso 15 ottobre dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (IAEA). Una scelta condivisa da altri otto paesi: Canada, Cina, Giappone, Russia, e Regno Unito (per l’Europa presenti anche Francia e Finlandia). Il documento riprende alcuni studi condotti da organismi sovranazionali, come la International Energy Agengy (IEA), secondo cui per centrare l’obiettivo di zero emissioni nette entro il 2050 sarà necessario raddoppiare la produzione di energia da fonte nucleare rispetto a quella del 2020.
Dunque, in un momento storico di profondo cambiamento e di grandi investimenti come quello attuale, la vera domanda che sembra dividere il dibattito internazionale è: il nucleare deve essere preso in considerazione per la transizione ecologica alla luce dell’urgenza della crisi climatica? Nello specifico, è sensato pianificare la costruzione di nuovi impianti nucleari nell’immediato futuro? O sarebbe più efficiente mantenere in funzione e rinnovare quelli già esistenti, sviluppando maggiormente gli altri settori dell’energia alternativa?
Per Simone Molteni, direttore scientifico del network d’informazione sul mondo della sostenibilità Lifegate – che gestisce l’omonima emittente radiofonica milanese dal 2001 – la risposta è chiara: «Pensare di costruire dei nuovi impianti nucleari non può essere la soluzione, perché significherebbe attendere altri 20 anni, compensando nell’attesa con il carbone». D’altra parte, Molteni sottolinea come «il nucleare non sia il male assoluto. Anzi, è fondamentale mantenere le centrali nucleari già esistenti operative, proprio perché abbiamo un estremo bisogno di energia decarbonizzata già adesso. Di fronte a tempi di realizzazione di decenni del nucleare, contrapposti a quelli molto più ridotti delle rinnovabili, per Molteni non c’è partita: «Quando si parla di sviluppo, le energie alternative sono molto più veloci, più sicure e, soprattutto, meno costose».
Molteni, in passato anche membro del consiglio d’amministrazione di Enea – l’ente pubblico di ricerca che si è occupato della gestione del nucleare in Italia – può vantare un’esperienza di lunga data in entrambi i due settori e ritiene che un investimento massiccio sulle energie alternative sia l’unica vera via d’uscita dall’incubo del disastro climatico.
«Come dimostrato da numerosi studi», ribadisce Molteni, «le rinnovabili non hanno limiti tecnici globali. L’irradiamento solare e il vento non pongono limiti fisici alla copertura dell’intero fabbisogno energetico del pianeta. Ciò detto, da un punto di vista di ottimizzazione economica si potrebbero integrare con un mix di diverse tecnologie low carbon».
Secondo Molteni, le prossime mosse per trasformare l’utopia di un mondo a zero emissioni in realtà sono già ben definite: «Serve azzerare la burocrazia che rallenta lo sviluppo delle rinnovabili. Modernizzare la rete e le tecnologie per queste nuove energie. Aggiungere le stazioni di accumulo, che oggi non sono sufficienti. Potenziare la fase di distribuzione e gli stoccaggi. Oggi ci sono le tecnologie e ci sono le possibilità. Serve solo il coraggio di scommettere veramente sulle rinnovabili con un grande sforzo collettivo».
Di tutt’altro avviso sono i docenti del Politecnico di Milano Matteo Passoni e Marco Ricotti, quest’ultimo professore ordinario di impianti nucleari, nonché presidente di Sogin dal 2016 al 2019. Per Passoni «il nucleare non va messo in nessun modo in contrapposizione con le energie rinnovabili», poiché l’unica speranza per scongiurare il punto di non ritorno del superamento dei 2°C è quella di «investire in un mix di tutte le forme energetiche, atomo compreso, a ridotte emissioni di CO2, poiché è impossibile che una sola modalità di produzione di energia elettrica sia sufficiente a soddisfare il fabbisogno a livello mondiale».
«In guerra si devono usare tutte le risorse» – aggiunge Ricotti – «e la lotta al cambiamento climatico sarà lunga e complicata. Il nucleare è una valida risposta, soprattutto se impiegato a certe condizioni e rispettando precisi parametri. Servirà uno sforzo collettivo di tutte le fonti d’energia alternative per salvare il pianeta».
Secondo questa tesi, risulta quindi evidente la necessità di nuovi impianti nucleari per poter raggiungere gli obiettivi del clima 2030. Molti di quelli esistenti sono già di lungo corso e la loro durata prevista in origine dovrà essere estesa, con interventi di manutenzione e revisione (la Francia ha di recente esteso di 10 anni la vita di 32 reattori nucleari con oltre quattro decenni di esistenza alle spalle).
Una delle principali critiche verso il nucleare riguarda l’aumento dei suoi costi negli ultimi anni: stando ai dati forniti da Legambiente, dal 2009 al 2019 il costo per Megawattora del fotovoltaico è diminuito dell’89%, passando da circa 300 euro a 30. Nello stesso periodo, un Megawattora prodotto con l’energia nucleare è aumentato di circa il 26%, passando da 105 a 130 euro. Un valore quattro volte superiore rispetto a quello dell’energia solare.
«È indubbio che il nucleare, come lo stanno facendo l’Europa e gli Stati Uniti oggi, ossia con grandi reattori, costruzioni in ritardo di anni, e aumenti dei costi di oltre il 300%, non sia sostenibile», commenta Ricotti. «Ma bisogna capire il perché, soprattutto capire come mai invece in Russia (dove è in costruzione un reattore di quarta generazione a piombo liquido da 300 Megawatt elettrici entro il 2024), in Cina, in Corea del Sud, in Giappone e persino negli Emirati Arabi Uniti, questi problemi non ci siano. La risposta è semplice, secondo me: manca l’allenamento. Europa e Stati Uniti non costruivano reattori nucleari da oltre 20 anni, a differenza degli altri paesi. Essendo un’industria complicata e sofisticata, non si può perdere l’allenamento».
Quindi, ragionando in termini di convenienza economica, la scelta potrebbe sembrare ovvia. Ma secondo Passoni, c’è un altro aspetto fondamentale che non si può trascurare in un paragone tra i diversi settori: «Le rinnovabili sono fonti d’energia intermittenti, mentre il nucleare, così come il carbone e il gas, fornisce una base di energia stabile, continuativa e anche modulabile secondo le necessità».
E nonostante il nucleare si basi sull’uranio, una risorsa finita, estratta dalle miniere, secondo le stime l’elemento non si esaurirà prima di un secolo: «Sfortunatamente», sottolinea Passoni, «gli studi sulle conseguenze della crisi climatica dimostrano che non disponiamo di tutto quel tempo».
Un’altra argomentazione a svantaggio del settore dell’atomo riguarda il presunto calo dell’affidabilità e della sicurezza degli impianti a energia nucleare, che potrebbero venire messi sempre di più a dura prova dall’acutizzarsi degli eventi meteorologici a causa del cambiamento climatico e dall’aumento del consumo di acqua dovuto all’innalzamento delle temperature. Le centrali elettronucleari fanno infatti affidamento su grandi quantità di acqua dolce per il raffreddamento del nocciolo, attingendo a fonti idriche come fiumi, laghi e baie.
Inoltre, già nel passato recente le centrali in Europa sono state costrette allo spegnimento o a ridurre la propria potenza a causa delle sempre più frequenti ondate di calore generate dal surriscaldamento globale. Ma non solo, gli stop improvvisi dovuti a eventi imprevisti o calamità climatiche evidenzierebbero la mancanza di versatilità e adattabilità di questa fonte d’energia ed esporrebbero a rischi di blackout improvvisi e di crisi energetiche in tutto il mondo.
«Diversi studi» – risponde Ricotti – «dimostrano come il nucleare sia in realtà una delle fonti energetiche più resistenti e resilienti nel tempo. La quantità dei rifiuti radioattivi è molto inferiore a quella dei rifiuti tossico-nocivi come arsenico, piombo, mercurio. Per non parlare delle polveri sottili, che provocano migliaia di morti ogni anno. In Germania l’ammanco di energia dovuto all’abbandono del nucleare è stato in parte compensato dal ritorno del carbone negli ultimi 10 anni».
Un’altra delle principali accuse che solitamente viene mossa contro il nucleare è anche quella di non essere a sufficienza carbon-free. La sua estrazione, lavorazione e produzione sarebbero procedimenti ad alto impatto di emissioni. «Ragionando in termini di emissioni complessive e includendo tutte le fasi del processo, dall’estrazione delle materie prime, alla costruzione, esercizio e smantellamento degli impianti – evidenzia Passoni – il nucleare garantisce le più basse emissioni, con valori simili a quelli dei settori dell’eolico e dell’idroelettrico, e anche inferiori a quelli del fotovoltaico».
«Sul tema dei rifiuti nucleari», precisa Ricotti, «ritengo ci sia molta disinformazione. Il nucleare non prevede un rilascio inquinante né in atmosfera né nel suolo. La gestione dei rifiuti nucleari, rappresenta una delle modalità meno dannose a livello ambientale. È vero che i rifiuti ad alta radioattività sono molto pericolosi, ma esistono tecnologie in grado di provvedere alla loro gestione».
«Lo dimostrano gli esempi di paesi come Francia e Finlandia» – continua Ricotti – «che stanno completando la realizzazione dei primi depositi geologici profondi (allestiti in siti con stabilità tellurica da milioni di anni). Oltretutto, lo sviluppo ulteriore della tecnologia, già in corso in Russia con il progetto PRORYV, ridurrà in modo significativo la durata della pericolosità, passando dall’ordine di migliaia di anni a soli tre secoli».
Riguardo al tema dei rifiuti radioattivi, in Italia da decenni sono attivi depositi temporanei per il loro stoccaggio. La Sogin, la società incaricata dal governo italiano di smantellare le centrali nucleari spente e chiuse dopo il referendum del 1986, ha pubblicato una mappa per l’individuazione di aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale delle scorie radioattive per lo smaltimento definitivo dei rifiuti a bassa attività. Esistono, da diversi decenni, molti esempi di depositi di questo tipo, in Europa e nel mondo.
Stando ai dati, in Italia le attività nucleari pregresse, presenti e future (le stime sono relative ai prossimi 50 anni) comportano la produzione di circa 95mila tonnellate di materiale radioattivo, che a sua volta si divide in 78mila tonnellate di scorie a bassa attività e 17mila ad alta attività.
In seguito alla pubblicazione, la maggior parte dei territori coinvolti si è opposta all’ipotesi. «La reazione» – commenta Passoni – «deriva soprattutto dalla scarsa informazione e conoscenza del tema. Anche per questo la legge ha stabilito la necessità di un processo di consultazione pubblica, tuttora in corso».
Sulla questione si è espressa anche Legambiente, che ha sottolineato la necessità di realizzare il deposito, ma che ha anche definito «problematiche da non trascurare» quelle legate al rischio idrogeologico delle aree individuate per ospitare tali scorie, in quanto nei documenti della Sogin che mappano il territorio italiano vi sarebbero «vuoti conoscitivi non colmati o aggiornamenti non recepiti» in merito ai rischi idraulici, geografici e morfologici della zona.