Lasciate che vi parli di me, tanto per cambiare: sono quella che dice di no a tutto. O almeno così è tradizione accada: sono quella che accetta un invito su venti, e quell’uno è quello sbagliato. Giacché, quando i tuoi sì sono la sola conseguenza del fatto che qualcuno ti rimproveri – «eh, ma non puoi sempre dire di no a tutto» – essi saranno del tutto casuali: dici sì una volta, ti trovi a essere intervistata da un cretino, o a comparire in una trasmissione che sembra il telethon dei Favolosi Baker (se non capite di che parlo, correte a recuperare quella meraviglia di film, invece di perdere tempo con me), e allora dici per carità, facevo bene a dire di no, e rifiuti tutto per un anno o dieci.
E dopo un anno si ricomincia, con una cosa sbagliata ma almeno una soltanto prima di murarsi di nuovo in casa.
Così è tradizione accada, ma il 2021 è stato, se posso arrubbarmi il sottotitolo d’un vecchio libro di Enrico Deaglio, un anno abbastanza crudele. Potrei fare della facile psicologia e dire che stavo fuggendo da me stessa: pur di non stare a casa a scrivere, ho detto di sì a tutto. Potrei fare dell’ancor più facile psicologia e parlare di disturbo postpandemico: tempo fa ho visto che, nel programma d’uno dei cinquemila festival cui ho detto di sì negli ultimi mesi, c’era un amico; gli ho mandato un messaggio che più o meno faceva: ma che ci facciamo a tutti ‘sti festival; lui m’ha mandato una risposta che più o meno faceva: siamo stati chiusi così tanto tempo che io per reazione ho detto di sì a tutto, e il risultato è che l’altra sera a [omissis] c’erano sei persone a sentirmi, organizzatori compresi.
E quindi ho detto anch’io di sì a quasi tutti, e ho scoperto che l’eventuale scarsità di pubblico non è tra i primi cento problemi: ho preso treni orrendi, aerei orrendi, e ho visto un sacco di umanità orrenda, che è tutta l’umanità che non ti scegli.
Quella coi nasi fuori dalle mascherine, quella che s’autoscatta, quella che trova normale che sui voli low cost ti vendano i gratta e vinci, quella che non trova kitsch il pilota che dice che la lotteria serve per i bambini «meno fortunati», quella che ti guarda strano quando borbotti «meno fortunati di chi», quella che il buffet omaggio a fine presentazione non lo guarda con raccapriccio, quella che sventola allegra il cartoncino che ti assicura una consumazione gratuita, quella che più che una domanda ha un’osservazione.
Ho fatto check-in con hostess la cui massima soddisfazione era rimandare in fondo alla fila tapini che avevano sbagliato a compilare un modulo rifiutandosi di prestargli una penna per correggerlo, ho acquistato cosmetici in duty free le cui commesse non erano in grado di distinguere un fondotinta da un fard, ho parlato dentro festival le cui libraie avevano venduto tutte le copie del mio libro prima non solo del mio arrivo ma proprio dell’inizio del festival (e ho pensato molto a una cosa che scrisse decenni fa Sandro Veronesi: alle presentazioni non comprano mai il tuo libro, al massimo quello di chi ti presenta).
Sono stata presentata da gente che declamava un intero paragrafo del mio libro non avendolo letto e chiedendomi a fine brano cosa pensassi di questa storia raccontata da Aldo Cazzullo (il presentatore si era sbattuto abbastanza da leggere la recensione di Cazzullo, ma non abbastanza da notare la parte in cui Cazzullo specificava che la storia che lì ricopiava l’aveva presa dal libro di una tal Guia Soncini, casomai uno di voi lettori quel libro dovesse prima o poi presentarlo); da una ventiquattrenne greca cui è toccato correggermi l’inglese (un’umiliazione dalla quale mi riprenderò tra ventiquattro anni); da persone di buona volontà che mi leggevano, a sostegno delle mie tesi, articoli altrui scritti e pensati così male che volevo rinnegarmi sotterrarmi uccidermi subito lì datemi un coltello per favore adesso.
Ho detto «La seconda classe non la prendo» quasi più volte di «Le dispiace mettere il naso dentro la mascherina», e ho capito perché tutti gli scrittori, anche quelli che proprio non potrebbero permetterseli, hanno assistenti: perché ci vuole qualcuno che dica per tuo conto che no, non andrai a Scurcola Marsicana a presentare il tuo tomo prendendo un regionale in seconda classe, non ci andrai perché c’è la pandemia e non intendi stare accalcata per diffondere la cultura, non ci andrai perché i fondi dei festival a cosa minchia servono se non a pagare la prima classe agli autori, non ci andrai perché sei anziana e vuoi stare comoda, non ci andrai perché hai letto il Financial Times e hai scoperto che Thomas Chatterton Williams per parlare in pubblico prende dodicimila dollari e dove hai sbagliato tu che stai qui a baccagliare per venti euro di differenza tra la prima e la seconda classe d’un treno che sarà comunque pieno di nasi fuori, e quasi diresti pur di non discutere con voi pezzenti mi faccio l’upgrade da sola, non fosse che stai mettendo gli spiccetti da parte per pagare un assistente che abbia queste conversazioni al posto tuo.
La settimana scorsa un’amica che dice di sì solo alle cose giuste (l’unico talento che vorrei la natura m’avesse donato) m’ha annunciato che due giorni dopo avrebbe parlato a Milano: andavo a vederla? Mi piacerebbe, ma sono a parlare di cancel culture con dei Tik toker a Salonicco. Ho sentito un silenzio preoccupato, e poi un sospiro. «Fammi capire, sei stata anni murata in casa e adesso dici di sì ai Tik toker a Salonicco? È la fase in cui dici di sì a tutto? Bisogna approfittarsene?». Abbiamo riso, anche se a me veniva da piangere (non per i Tik toker, che poi ho scoperto essere YouTuber e ovviamente più svegli di me: per me, per quello che fu vanamente speso per farmi studiare negli anni in cui la scorciatoia per la popolarità era Tinto Brass e non YouTube, per il sospetto di guadagnare meno d’uno YouTuber minore).
Poi ho preso l’aereo del gratta e vinci, ho compilato moduli pandemici che chiedevano la targa della macchina con cui sarei andata dall’aeroporto a casa (moduli senza compilare i quali ti dicono che non puoi partire ma poi nessuno te li controlla – tantomeno ritira – né al decollo né all’atterraggio), ho visto gente metterci dieci minuti a sfilarsi e reinfilarsi la cintura ai controlli, e sono lieta di comunicare – alla mia amica, a voi tutti, e soprattutto a me – che credo la cura d’urto m’abbia guarita. La prossima volta che dico sì è la volta in cui mi mandano un volo privato. Ah no, gli aerei privati cadono. Una limousine. Ah no, gli autisti hanno il naso fuori dalla mascherina. Allora niente, la prossima volta che dico di sì è mai.