E quindi oggi la città italiana che peggio gestisce la spazzatura avrà un nuovo sindaco. Se pensate stia dicendo che a Roma vincerà qualcuno al primo turno, probabilmente siete giornalisti, e sicuramente non siete passati da Bologna di recente.
Mia nonna diceva: chi ha la nomea, e chi fa i fatti. Parlava di commerci sessuali, ma avrebbe potuto parlare di amministrazioni cittadine e raccolta dei rifiuti – non fosse che, nel Novecento, questo non era un tema.
Nel Novecento, a Bologna, c’era un cassonetto dall’altro lato della piazza in cui abitavano i miei genitori. Nel cassonetto si buttava tutto: non esisteva il concetto di raccolta differenziata, al massimo chi ti portava l’acqua si riprendeva le bottiglie di vetro vuote.
Al cassonetto ci andava mio padre, giacché mia madre riteneva inelegante che una signora recasse seco un sacchetto della spazzatura (che era un sacchetto della spesa cui avevi fatto il nodo: intravedo un paradosso nel fatto che l’epoca ecologica del riciclaggio sia quella in cui abbiamo iniziato a comprare, per gettare via i rifiuti, appositi sacchetti, invece di usare quelli che avevamo già in casa).
Quando, trent’anni e qualche settimana fa, mi trasferii a Roma, la mia prima casa era un buco ma ben posizionato (una signora che non si fa vedere coi sacchetti della spazzatura conosce da secoli quel trucco per trovare alla figlia un buon partito che in questo secolo è divenuto uno slogan di Airbnb: location, location, location).
Il buco a Trinità dei Monti aveva, per la gioia di mammà, un bidone interno: la mattina presto la portinaia apriva alla raccolta della nettezza urbana, che portava via quel che a Bologna si chiama rusco e a Roma monnezza. Nei trent’anni successivi, non ho mai portato fuori la spazzatura. Ho abitato in mezza dozzina di case romane con bidone interno, e in una casa milanese dove – intanto era arrivato il secolo del riciclo – i bidoni di cui si occupava il portinaio (a Milano: custode) erano di cinque tipi: vetro, carta, plastica, umido, indifferenziata.
Nel frattempo Roma – come il resto del pianeta – si riempiva di cellulari con fotocamera, a Roma più spesso che altrove proprietà di giornalisti, che fotografavano la monnezza e decidevano che quella era la città più incapace di gestirla.
Nel frattempo, ogni volta che tornavo a Bologna, la trovavo invasa dal rusco quanto Roma, ma nessuno ne parlava: così impara a essere una città di cantautori invece che di editorialisti.
A un certo punto ho capito che c’era una differenza fondamentale, tra il pattume emiliano e quello laziale: il primo non era distrazione, caos organizzativo, cialtronaggine degli indigeni; l’invasione del rusco, nella città in cui ero nata, era frutto d’una pedagogia malsana.
A Bologna – arrogante e papale, la rossa e fetale – si è deciso che il cittadino dev’essere responsabile. Lasciate che vi parli della carta smeraldo, sulla quale ho avuto molte conversazioni con dipendenti dell’azienda che gestisce quella follia che è la raccolta rifiuti bolognese.
La mia preferita è la signora che, per tutta la conversazione, l’ha chiamata “carta smeralda”, come la vita smeralda di Jerry Calà.
Ma era notevole anche il ragazzo che, quando gli ho detto che mi pareva incredibile che Bologna nel 2021 non facesse la raccolta porta a porta dei rifiuti, mi ha fatto la predica di sinistra: se io metto il sacchetto fuori dal portone poi c’è un porocristo di netturbino che deve mettere le mani nei miei sacchetti, che magari colano, schifosa che sono (non me l’ha detto ma si vedeva che lo pensava), invece di compiere un’operazione indolore quale svuotare il cassonetto.
Non ho ribattuto. Aveva ragione. In teoria.
In pratica la carta smeraldo, con cui apri i cassonetti, per averla devi essere residente – e già questo esclude gli studenti fuori sede, che sono una cospicua parte degli abitanti della città. Ma mica sono solo loro, a lasciare sacchetti in giro o a spingerli a forza in cestini concepiti per buttarci un cono gelato e poco più.
Pensate a quante volte, al supermercato o in altro negozio, non funziona il contactless della carta di credito. Aggiungete a questa cifra il fatto che il meccanismo contactless d’un cassonetto è esposto alle intemperie e non trattato con gran cura dagli utilizzatori. Ed ecco che otterrete che l’imprevisto che non funzioni la carta Visa divenga (alta) probabilità che non funzioni la carta smeraldo.
Ma non sarà solo il cittadino che non riesce ad aprire il cassonetto, a mollare il sacchetto in prossimità. C’è anche quello col sacchetto (sportina, in bolognese) troppo grosso, giacché la pedagogia prescrittiva bolognese dice che, se il sacchetto è troppo voluminoso, non hai riciclato bene.
Non hai separato tutta la plastica che potevi, o tutta la carta (le ritirano una volta a settimana, purché non siano troppe: credo che Bologna voglia dai suoi cittadini l’impatto zero, ma non ha ancora avuto il coraggio di dirglielo). Per educarti a farlo, la finestrella del cassonetto che apri se funziona il contactless è più piccina di quella d’un convento di clausura.
Se il sacchetto è troppo grosso s’incastra. E quindi, mi dice minaccioso il funzionario di settore cui chiedo lumi, non so se arrivi la multa ma di sicuro sappiamo chi è stato l’ultimo ad aprirlo. Timorosi dell’incastro di cassonetto e relativa condanna alla gattabuia, i bolognesi si limitano a mollare la sportina col rusco per terra (in bolognese: in terra).
Come finisce l’avete già capito: col povero netturbino che raccoglie sportine da intorno al cassonetto, prima di poterlo svuotare. Con la differenza che, non essendo prevista la raccolta porta a porta, il tapino non raccoglie il sacco resistente alle intemperie e sigillato e lindo in cui il mio portinaio milanese ha chiuso i sacchetti dei condòmini, ma proprio i sacchetti fetidi che diceva di volergli risparmiare il funzionario di sinistra.
E c’è margine di peggioramento: nel 2022, il progetto della gestione bolognese è di tassare i rifiuti a volume. Fino a una certa soglia di sacchetti del rusco, la butteria sarà compresa nella tassa che già paghi. Quando la superi (schifoso inquinatore), inizia il periodo in cui, ogni volta che usi la carta smeraldo, vieni ulteriormente tassato. Più butti secondo i metodi pedagogicamente previsti, più paghi. Come finisce l’avete già capito: che nessuno userà più l’esosa finestrella, e si moltiplicheranno i sacchetti abbandonati come figli di ragazze madri nella ruota. Come possa non averlo capito l’amministrazione locale è un mistero.
Il fatto è che Bologna vuol essere una città moderna: alle donne arriva a casa l’invito a farsi la mammografia gratis, prenotando sul sito; ma poi è una città del Novecento, e il sito mica funziona, e le signore che rispondono al centralino del servizio (della Regione, lo preciso sennò il nuovo sindaco pensa gli voglia addebitare malfunzionamenti non suoi) sospirano come chi ha il figlio scemo: lo sanno, ma che ci possono fare.
Non è necessariamente un male, essere una città del Novecento. Il sindaco fa la campagna elettorale parlando di cosa farà per la musica, come fosse la città di “Vota la voce” che era quando avevo otto anni. Glovo la mattina è desolatamente vuoto d’offerte: il bolognese non ordina uova a domicilio, vive in una provincia del Novecento, mica a Santa Monica (dov’è convinto di vivere il milanese, che ha avuto i cantautori sbagliati e ignora la grazia e il tedio a morte del vivere in provincia).
Sabato sera il già vincitore candidato sindaco del Pd, Matteo Lepore, è salito sul palco in piazza Maggiore mentre suonava Dancing in the dark, come Courteney Cox quando avevo dodici anni. Al Lumière, il cineclub dove andavo a vedere Truffaut a sedici anni, stasera e domani fanno Effetto notte: tutto è rimasto immobile. Bologna è la risposta a Michele Apicella: non è sempre vero che le merendine di quand’eravamo bambini non torneranno più, a volte ci sono scorte di merendine infinite.
Essere una città del Novecento va benissimo, anche se i bolognesi si fanno le mappe dei cassonetti ad apertura libera come i milanesi mappano i bar in cui puoi mettere in carica il cellulare. Ci sei stato in quello di Belle Arti? Ci si possono buttare le sportine voluminose.
Essere una città del Novecento non è grave. Lo diventa quando, se parli del delirio della spazzatura con qualcuno del settore, quello ti risponde giulivo: ma abbiamo la app Il Rifiutologo, puntesclamativo.
Non avevo mai sentito niente di così milanese, così da epoca di Instagram, così romanamente cialtrone: la spazzatura non sanno raccoglierla, però hanno la app. Bologna, sai: la te del Novecento mi manca un casino.