Bisogna essere grati a Patrizia Valduga, poeta: è grazie a lei se Giovanni Raboni, intellettuale ed editor, scrittore-lettore, poeta e milanese trova ancora un varco nella schiera di pubblicazioni sempre più fitta di patacche, dette il “nuovo”.
Difficile separare le varie attività letterarie di Raboni: tutto si tiene, come si suol dire. (Raboni è stato anche autore e critico teatrale, e non degli ultimi). Il Meridiano dal titolo “L’opera poetica“ ha in qualche modo sancito l’ingresso dell’autore nel canone della letteratura italiana e si pone come punto di partenza per un approfondimento.
Nondimeno forte è la necessità di un secondo volume delle prose. (Il Meridiano ne contiene una piccola scelta legata all’opera poetica). Si tratta infatti della parte più trascurata dell’opera di Raboni: aspetta una sistemazione critica.
Bisognerebbe anche dire della sua attività di editor(e), come curatore della collana “Quaderni della Fenice“, Guanda, dove pubblica al primo numero “Poesie 1921-1925“ di Osip Mandel’štam, curato da Serena Vitale, 1976, (prima della splendida serie di traduzioni dedicate al grande poeta russo), titoli importanti di Ghiannis Ritsos e Odisseo Elitis tradotti da Nicola Crocetti, per dirne solo alcuni, e dove offre l’esordio ad alcuni allora giovani poeti italiani, tra cui Franco Cordelli e Milo De Angelis. Era il tempo in cui era d’uopo ragionare per collane e affidarle agli scrittori-lettori di qualità, prima dell’avvento degli amministratori-delegati-editori.
Ora Patrizia Valduga in veste di editor ha inventato un libro singolare raccogliendo in volume gli scritti di Raboni su Baudelaire (e Flaubert), con l’aggiunta delle lettere tra i due (nove di Flaubert e cinque di Baudelaire), a condire la sua postfazione. Si tratta di scritti critici d’occasione e frammenti d’autore, di introduzioni e prefazioni alle traduzioni delle opere di Baudelaire e Flaubert dove subito appare chiaro e ben definito il disegno critico dell’autore e che spiccano per organicità.
Il primo di questi scritti, “Modernità, il tuo vero nome è Ottocento“, apre il discorso e indica il paradigma della attività critica (vien da dire, della poetica) di Raboni. Oggi soprattutto, che è invalsa la bizzarra bestialità di far coincidere la Modernità con il Novecento, «questo secolo diabolicamente orgoglioso di sé, delle proprie meraviglie e perfino dei propri orrori». Non è così – e vale ripeterlo.
Raboni aveva capito subito qual era il pericolo di questa sovrapposizione e prende posizione: «Il fatto è, a mio avviso, semplicemente questo: che la modernità, lungi dall’essere una scoperta o un appannaggio del nostro secolo, ha la sua patria, il suo habitat naturale nel secolo precedente: e non solo negli ultimi scorci di esso, ma nell’intera sua durata». In realtà la modernità nasce con “L’encyclopédie”, i romanzi e i “Salons” di Diderot, e quindi nella seconda metà del Settecento. Paradigma fondamentale di conoscenza ed educazione al Moderno ormai sempre più disatteso, col risultato di schiacciare la modernità sulle esperienze delle avanguardie novecentesche.
E se proprio le avanguardie storiche (e poi le neo-avanguardie), o perlomeno una parte precisa di quelle, contenessero il germe della dissoluzione della modernità? Non è qui il luogo e oggi il momento di andare a fondo alla questione, però vale la pena di riflettere su una ipotesi: quella che vede il santo Patrono dei Vetrinisti (gli zelanti zuzzurulloni che fingono di non sapere – e ormai non sanno – la differenza tra gesto estetico e opera d’arte), al secolo Marcel Duchamp, come il primo e letale vetrinista della Post-Modernità, la nebulosa storica che non sa definirsi se non post-qualcosa-che-viene-prima. Rimanendo alla letteratura: e se Joyce post-se-stesso fosse il primo e subito il migliore scrittore post-moderno?
La Storia non è un orario ferroviario, ammoniva Roberto Longhi, che aveva letto e meditato sulla “Vita delle forme“ di Henri Focillon, e non poco.
Ora, se c’è uno scrittore che sancisce la nascita e l’affermazione della Modernità, e ne intuisce subito con sicurezza il guasto e i pericoli, quello è Charles Baudelaire: non è quindi una scelta di gusto, o almeno, non è solo quella a spingere Giovanni Raboni a occuparsi per tutta la vita della sua opera: è la cognizione della centralità assoluta di Baudelaire come artista e uomo moderno. Non stupirà così che Raboni abbia licenziato ben cinque versioni de “Les fleurs du mal“, la prima nel 1973 e l’ultima per il Meridiano di Baudelaire, curato con Giuseppe Montesano, 1996. (A proposito: il “Baudelaire è vivo“, mirabile mammuth letterario dell’unico vero réfractaire italico, Giuseppe Montesano, è compagnia e pungolo). Non potrebbe essere in altro modo: Baudelaire è stato, è, rimane lo scrittore assoluto del Moderno.
Scrive Raboni nel 1987: «Sono vent’anni che traduco “Les fleurs du mal“ e non sono affatto sicuro di aver finito». È così, Baudelaire non ci lascia mai: noi che ancora crediamo nel Moderno e sappiamo che in realtà non ha mai trovato realizzazione. (Gli atlantici seguono in parallelo per altre strade, ma per noi europei è Baudelaire: punto e basta). Raboni riconosce subito a Albert Thibaudet il diritto alla primazìa: è stato l’autore della “Storia della letteratura francese dal 1789 ai giorni nostri“, 1936, a fissare la peculiarità che sarà carattere del Moderno: l’alleanza tra poesia e prosa, «tra prosa nuda e poesia pura», per dirla con Thibaudet. Il grande saggista francese diceva anche la modernità di Baudelaire come di un’arte «più sottile di quella della consonanza»: Raboni coglie lo spunto e sviluppa nel saggio “L’arte della dissonanza“, che segue l’introduzione di Giovanni Macchia al Meridiano delle opere di Baudelaire. (Macchia, Raboni, Montesano: allora la continuità esiste: c’è un senso). Non poteva quindi che diventare principio della poetica di Raboni.
Non altrettanto decisivi e comunque notevoli i testi sull’opera di Gustave Flaubert. Torna sui passi e le parole dell’amato Proust, di cui ha tradotto l’intera “Recherche“, per dire la ricerca della “bellezza grammaticale” di Flaubert, il suo modo nuovo di impiegare tempi verbali, preposizioni, avverbi, e la punteggiatura, questa innocente vittima dei banalisti; e la del tutto personale alternanza tra perfetto e imperfetto, «con effetti di rallentamento e dilatazione». Insomma, è la letteratura e il suo farsi nell’opera di Flaubert a interessare Raboni. La nostra ossessione.
Patrizia Valduga nella postfazione non aggiunge e da poeta sottolinea – e sono altri spunti e segni di esistenza. Dice di Baudelaire, Flaubert e Raboni avvicinabili per via di quella che Proust diceva «consanguineità dell’intelligenza»: come darle torto? È quello dell’intelligenza l’unico modo di avvicinare il mistero dell’arte, quale che sia, il suo compiersi in uomini devoti alla forma e a nient’altro.
Indica compìta le coincidenze delle vite dei due grandi francesi, a iniziare dall’anno e dal mese di nascita, dal nome delle loro madri, Caroline, e dal finire entrambi processati per immoralità – e poi si concede il vezzo di rimirare un autoritratto di Flaubert: «Ho trentacinque anni, sono alto cinque piedi e otto pollici, ho delle spalle da facchino e un’irritabilità da fanciulla civettuola». È per lui che parteggia, si sporge e sorride, alla faccia dei petulanti fratelli Goncourt e compagnia.
Sono per Raboni le sottolineature rivelatrici: «i bisogni imperterriti del rimorso» (e in quel “imperterriti” c’è molto di Raboni) che indica anche nei testi critici («Manzoni deve esserci, non può non esserci, è chiaro, come un tenue, degradato riflesso, o solo come rimorso»); «lo stare con i morti», l’agio della compagnia delle cose e dei ricordi di loro, come lo sgabello da giardino della madre («È una comunione tra questo giardino e l’altro, un’estensione della sua vita su questa morte, e una continuità di esistenza comune, attraverso questi sepolcri»). La presenza spirituale dei grandi scrittori non come monumenti ma come vere presenze, da amare: «Amarli, cioè lottare giorno dopo giorno con loro sapendo che un giorno potrà succederci di non trovarli, di non capirli, di non amarli più» – la paga dell’intelligenza. Così, come con una bella donna sfilata al Tempo e le sue invidie.
Infine, una bella occasione per riprendere in mano i libri di Giovanni Raboni, godere della chiarezza di pensiero e della passione letteraria ed editoriale di un intellettuale milanese troppo presto e a torto dimenticato. Il tempo dirà tutto.