Si dice che un giorno un socialista sia entrato nell’ufficio del magnate dell’acciaio Andrew Carnegie all’apice del suo successo, nell’ultima decade dell’Ottocento, e abbia chiesto che i ricchi distribuissero il loro denaro ai poveri. Carnegie, così si racconta, chiese al suo assistente di stimare la propria ricchezza e di dividerla per il numero di persone allora presenti sulla Terra. L’assistente tornò poco dopo con le cifre e Carnegie gli disse: «Dai a questo signore sedici centesimi. Questa è la sua parte di ricchezza».
Nessuno può dire con certezza se questo sia realmente accaduto o meno. In un certo senso, non ha molta importanza. Ma è uno dei tanti aneddoti divertenti che rendono il libro di Art Carden e Deirdre McCloskey, “La grande ricchezza. Come libertà e innovazione hanno reso il mondo un posto migliore”, così piacevole.
Eccone un altro: negli anni ’30, un vecchio amico andò dal comico Groucho Marx e gli disse: «Groucho, ho un disperato bisogno di un lavoro. Tu hai molti contatti utili». L’amico era un comunista e, dal suo punto di vista, ogni forma di impiego era anche una forma di sfruttamento. Groucho Marx, facendo uso della sua tagliente arguzia, rispose: «Harry, non posso. Sei il mio caro amico comunista. Non voglio sfruttarti».
Il libro è costellato di questi aneddoti, ma affronta una domanda seria: come si è giunti ad avere un mondo così prospero? Dopo un lungo periodo in cui il livello di benessere è cambiato poco, all’interno di società che erano rimaste statiche per millenni, il capitalismo è emerso nei secoli XVIII e XIX e ha portato a un sensibile miglioramento delle condizioni di vita delle persone. I due autori, tuttavia, evitano la parola “capitalismo”, che considerano un termine polemico usato dagli intellettuali di sinistra. Parlano di “liberalismo” e di “innovazione” perché credono che questi termini siano scientificamente più accurati.
La schiavitù e il colonialismo non sono alla base del capitalismo
Nonostante le loro obiezioni, userò qui la parola capitalismo perché, in fondo, questo libro parla di come il capitalismo è nato.
Gli autori affrontano una serie di spiegazioni comuni, ma concludono che nessuna di queste è convincente. I diritti di proprietà e lo Stato di diritto, per esempio, preesistevano al capitalismo da centinaia di anni, quindi sono condizioni necessarie ma non sufficienti. Allo stesso modo, lo sviluppo della scienza, pur essendo molto importante, fu una conseguenza piuttosto che una causa dell’arricchimento economico: «La scienza fu più un risultato della crescita economica che una causa». Le scoperte scientifiche dell’epoca, osservano gli autori, furono conseguenti all’innovazione tecnologica.
Gli autori dimostrano anche che la spiegazione attualmente di moda, secondo cui il capitalismo sarebbe radicato nella schiavitù e nel colonialismo, è tutt’altro che convincente. La schiavitù non è affatto un’invenzione moderna, essendo esistita per millenni, e se i profitti derivanti dallo sfruttamento della schiavitù avessero favorito l’emergere del capitalismo, allora perché il capitalismo è emerso in Olanda e Gran Bretagna, piuttosto che in Cina, o forse nel Brasile, che ha avuto molti più schiavi africani di quanti ne siano arrivati in Nord America?
L’economista Thomas Sowell ha scritto: «14 milioni di schiavi africani sono stati portati attraverso il deserto del Sahara o spediti attraverso il Golfo Persico e altre vie d’acqua verso le nazioni del Nord Africa e del Medio Oriente, rispetto a circa 11 milioni di africani fatti viaggiare attraverso l’Atlantico».
In ogni caso, perché i profitti della schiavitù dovrebbero essere stati così cruciali per finanziare l’industrializzazione? «Se questi profitti sono stati giudicati di fondamentale importanza, perché allora non considerare, per esempio, i profitti dell’industria della ceramica, di portata simile, o del commercio al dettaglio, ancor più elevati? Perché i profitti “indegni” sarebbero stati più efficaci per il Grande Arricchimento rispetto a quelli “onorevoli”? (La ragione sembra essere il desiderio di vedere comunque il “capitalismo” come nato nel peccato)».
Anche la spiegazione oggi popolare secondo cui il capitalismo ha le sue radici nel colonialismo è falsa. Portogallo e Spagna, le prime potenze imperialiste con colonie dal Messico a Macao, erano le più povere dell’Europa occidentale al momento in cui il capitalismo emerse. E Paesi come la Svezia e l’Austria divennero ricchi anche senza significativi territori coloniali d’oltremare.
L’importanza delle idee
Carden e McCloskey sostengono che la vera ragione per cui il capitalismo è emerso e il mondo si è arricchito riguarda il cambiamento che si è verificato in merito a «etica, retorica e ideologia». Viene così ribaltata la logica di Marx, per il quale l’essere determina la coscienza. È stato il contrario: un cambiamento nell’ideologia ha posto le basi per tutti i cambiamenti rivoluzionari che il capitalismo ha portato.
Naturalmente, non si dovrebbe pensare all’emergere del capitalismo in questi termini: Adam Smith che scrive un libro e poi fa attuare le sue idee da abili politici. Piuttosto, come F.A. Hayek ha ben spiegato, il capitalismo è sorto come un ordine spontaneo – in maniera simile al modo in cui nascono le lingue o le piante.
L’importanza delle idee, secondo me, sta più nel ruolo che giocano nel rimuovere le barriere alla crescita spontanea precedentemente imposte da governanti e stati. Nel mio libro “La forza del capitalismo” uso la Cina come esempio per esplorare questo fenomeno: in Cina, il capitalismo si è sviluppato spontaneamente nelle regioni rurali. L’importanza delle idee e della politica risiede nel fatto che Deng Xiao Ping lanciò lo slogan «Lascia che alcuni si arricchiscano per primi». Non appena disse queste parole, i processi spontanei non furono più bloccati.
Gli autori sfatano anche molti miti che circondano la nascita del capitalismo, compresi quelli che riguardano le condizioni intollerabili nelle prime fasi del capitalismo. L’industrializzazione e l’urbanizzazione, sostengono, hanno fatto di più per superare la povertà che per crearla.
Prendendo la Francia come esempio, mostrano quanto fosse diffusa la fame nella Francia rurale prima dell’inizio dell’industrializzazione. E smentiscono anche il mito che i miglioramenti nelle condizioni di vita delle persone nel XIX e XX secolo siano dovuti principalmente al movimento operaio, ai sindacati e allo stato sociale. Le condizioni di vita migliorarono, spiegano, principalmente come risultato dell’aumento della produttività e non della ridistribuzione della ricchezza da parte dello stato sociale.
Gli autori hanno il grande merito di argomentare non “teoricamente”, come fanno molti economisti moderni, ma “storicamente”: con una sorprendente ricchezza di fatti e un’astuta comprensione della storia, confutano molti miti diffusi – e lo fanno in un modo così divertente che rende la lettura di questo libro un piacere continuo.