Un’americana a ParigiJoséphine Baker e l’arte di vivere (superando il razzismo)

La ballerina era diventata la star della capitale francese nel Dopoguerra. Il suo fascino esotico attirava attenzioni, amanti, lodi e critiche. Ma entrare a far parte della società si rivela difficile

AP Photo/File

La prima è un grande avvenimento.

Il clou dello spettacolo consiste in un immenso scrigno di metallo, la boule de fleurs, sostenuto da otto cavi d’acciaio e azionato da quattordici operai che lo calano lentamente sul palco prima che si schiuda sull’artista in piedi su uno specchio. Joséphine indossa solo i tre braccialetti d’oro sulla parte alta del braccio e la sottile cintura di sedici banane maliziosamente rivolte all’insù. Un quadro di Delaunay che ha preso vita. Parte un frenetico charleston: l’astuto gioco di riflessi proietta le lunghe gambe sull’immenso tendone alle sue spalle, moltiplicandone i passi.

L’effetto è strabiliante, accecante, convulso, frenetico: un «Ooooh» di emozione della folla prima che la gabbia floreale si richiuda e issi la ballerina nella buia e lontana cupola del teatro.

E. E. Cummings ricorda: «Non era una creatura subumana e neanche superumana, ma entrambe; c’era in lei un qualcosa di misteriosamente immortale. Non era solo primitiva e selvaggia, ma andava al di là del tempo, nel senso che l’emotività va ben oltre la matematica».

Ben presto, tutta Parigi si vanta di conoscerla di persona.

Vanity Fair: «Dalla guerra in poi, i due americani più conosciuti in Europa, ovviamente per ragioni diverse, sono Woodrow Wilson e Miss Baker». Joséphine che si dondola dal trapezio mentre lancia mazzi di violette al pubblico incarna lo spirito di quegli anni: la nobiltà dello spreco, l’intensità, la gioia sfrenata. Lei è la Venere di Ebano, la Perla Nera, la Dèa Creola, la ragazza più fotografata al mondo.

Le banane, simbolo fallico, diventano un logo. Così come i pantaloni sformati di Charlie Chaplin. Bambole, cocktail, costumi da bagno, pettinature, lacche per capelli, creme e profumi prendono il suo nome.

A quel tempo, Joséphine non si rende conto di quanto il suo essere coloured sia la ragione di quel boom. Passa ore in camerino a stirarsi i capelli, provando anche a decolorarsi il viso con strambi intrugli all’aceto e al limone.

Negli anni, esagerando l’importanza della sua negritudine, si prenderà il merito per la moda europea dell’abbronzatura, quando negli anni Venti tutti si spostavano in branco dalla Costa Azzurra a Biarritz, a Deauville, al Lido di Venezia.

«I bianchi avrebbero fatto qualsiasi cosa per assomigliarmi. Al mare si cospargevano d’olio e si crogiolavano sotto il sole a martello. Qualcuno si ustionava e finiva in ospedale. Poco male. Erano tutti d’accordo nel dire: “Che meraviglia essere baciati dal sole!”»

Durante la prima stagione teatrale, l’enfant gâté sembra divertirsi a tirare la corda. Le piace far impazzire tutti.

“Aspettare Joséphine” diventa un rituale esasperante.

Pochi minuti prima dello show, il regista è per strada in attesa. Il direttore d’orchestra aspetta sul podio con la bacchetta alzata. Le ballerine, già sul palco, guardano con ansia isterica verso le quinte. A volte, per prendere tempo, tocca suonare un interludio dopo l’altro. Capita che il regista debba invertire l’ordine prestabilito. Poi, quando tutto sembra perduto, la porta si spalanca con un calcio.

Un cappello vola in aria, una pelliccia viene scaraventata a terra. Lasciando uno strascico di vestiti, scarpe e biancheria, Joséphine si precipita verso il camerino.

Non sopporta la solitudine. È sempre pronta a invitare chiunque a bere tra un atto e l’altro anche se preferisce gli animali alle persone. «Li considerava i suoi migliori amici» ricorda Paul Derval. «Aveva un’intera famiglia di conigli che nidificava nell’armadio, topi bianchi nei cassetti, cani, gatti e uccelli più o meno ovunque. Le sue nuove conoscenze erano un cucciolo di leopardo e un Boa constrictor. Ho perso la testa quando ho visto arrivare anche una giovane capra. Volevo farle causa ma discutere con lei era come aspettare la fioritura di una papaia maschio. Inutile».

È sempre in movimento, come a proteggersi dal pericolo di essere esclusa. Capisce bene che la notorietà regalatale dalla repressa curiosità sessuale europea non durerà in eterno. Non è un’ingenua. Ha vissuto troppo tempo nei brutali vicoli del ghetto per non sapere come vanno le cose. Costi quel che costi, non tornerà più alla condizione di negra pezzente.

Dovrà integrarsi in fretta e assicurarsi un posto solido nel complicato milieu dei bianchi alla moda.

Fa di tutto per essere più provocatoria, spiritosa e vivace degli altri. Quando c’è lei, la vita di tutti sembra meno noiosa e banale. Le dispiacciono però l’obliqua ironia e la cruda tolleranza alla base di tante lusinghe.

Chi la circonda ridacchia sottovoce alle battute di Paul Morand: «Quei saltelli un po’ sinistri hanno qualcosa di preistorico. Che dire del torrente di parole smozzate e sgangherate in entrambe le lingue? Si esprime a stento, sia in inglese che in francese».

Il vignettista del momento – Sem –, che ritrae la buona società, avverte la mascherata aggressione e la disegna di profilo. Il torso è elegante, teatrale e ingioiellato, mentre una coda da scimmia impennacchiata con una mosca ronzante le dondola dal didietro.

Certo, sa di essere ignorante e di avere una formazione che fa acqua da tutte le parti. Rimedia come può. Quando le verrà servito per la prima volta un astice, farà ridere tutti masticando per intero anche il guscio.

Sebbene galleggi – per così dire – in un mare di conoscenze, si sente persona non grata in un mondo che va oltre la sua comprensione. Vede benissimo i fitti scambi tra le persone con le teste chine l’una verso l’altra, i loro sorrisi segreti. E lei, rimasta indietro, finisce spesso per essere tagliata fuori. Il fatto è che ignora tutto dell’indole francese; razza raffinata ma stanca e paranoica per troppo antichi e smodati fasti. Il ruolo dell’intelligenza nelle faccende umane ha un limite, e nessun popolo si impossessa di una cultura senza pagarla a caro prezzo.

Intuisce che gli amici bianchi non sono amici veri. Troppo compiacenti e gentili; sarà meglio non fidarsi. Le manca però il bagaglio per competere con gli artifici della crème de la crème della società, fatti di rigidissime convenzioni che per lei rimarranno a lungo un mistero. I francesi elitari e convenzionali non permetterebbero mai che una funzione puramente decorativa basti come passe-partout. Oh sì, fingeranno di essere gentili e liberali e le regaleranno l’accesso a una vita affascinante, ben lontana dalla rispettabilità di cui è affamata.

Per non essere da meno, Joséphine affina il personaggio; inventa il montaggio della sua vita, nasconde le brutture in modo cosmetico, recita infinite variazioni sul ruolo assegnatole, modifica circostanze troppo spinte con aneddoti giustificatori. Forse, così l’accetteranno fino in fondo.

da “Scandalosamente felice”, di Gaia de Beaumont, Marsilio, 2021, pagine 192, euro 16

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