Vigilanze militariLa proposta per un sistema europeo che controlli l’export di armi

Gli stati dell’Unione vendono spesso armamenti a paesi in guerra, o teatro di violazioni di diritti umani. La proposta dell’eurodeputata Hannah Neumann assegna alla Commissione la supervisione. Ma Bruxelles non avrà il potere materiale di fermare la vendita da parte di un Paese membro che vuole portarla a termine

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Fino alla fine del 2021 la Germania non esporterà armi in Arabia Saudita, una decisione presa nel 2018 e prorogata più volte, come conseguenza del coinvolgimento del Paese nella guerra in Yemen e dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. La cosa però «non fa alcuna differenza» per i sauditi, come disse al momento del rinnovo dell’embargo l’allora ministro degli Esteri, Adel al-Jubeir. L’Arabia Saudita infatti acquista armamenti per oltre dieci miliardi di euro dall’Ue, stando agli ultimi dati del Servizio europeo per l’azione esterna, relativi al 2020.

Rendere coordinata e coerente la politica di export bellico dell’Unione è l’obiettivo di un regolamento proposto dal gruppo Verdi/Alleanza libera per l’Europa al Parlamento europeo. Il testo, stilato dall’eurodeputata tedesca Hannah Neumann, punta a eliminare le divergenze fra i 27 Paesi e assicurare che le armi europee non finiscano per nuocere, in maniera indiretta, anche all’Unione.

Al momento, sono i singoli Stati a decidere sulle esportazioni. L’unico vincolo a livello europeo sarebbe una Posizione comune del Consiglio risalente al 2008, che definisce otto criteri da rispettare per procedere a una vendita fuori dai confini comunitari. Le interpretazioni di queste regole sono diverse, tanto che alcuni Stati membri escludono determinati Paesi destinatari mentre altri li considerano acquirenti legittimi. Per l’Italia, al momento, il maggior compratore di materiale militare è l’Egitto: 991 milioni di euro autorizzati nel 2020, secondo i numeri forniti da Rete Italiana Pace e Disarmo.

Se la vendita di armi è totalmente in capo ai governi nazionali, la produzione riceve invece un sostanzioso contributo comunitario. Il Fondo per la Difesa europeo, con cui vengono finanziati ricerca e sviluppo nel settore militare pesa per quasi 8 miliardi di euro sul bilancio settennale dell’Ue. 

Come funziona il nuovo meccanismo
Secondo Hannah Neumann, proprio questo programma è un esempio del ruolo che la Commissione detiene nell’ambito militare. Per questo, sostiene l’eurodeputata tedesca, dovrebbe anche vigilare sulle esportazioni di armamenti. «La proposta dimostra la necessità di un quadro giuridico comune in materia e ne mostra la compatibilità con i trattati», dice Neumann a Linkiesta. In questo modo, si possono gettare le basi affinché la Commissione proponga un regolamento: all’esecutivo comunitario spetta il potere di iniziativa legislativa, ma il Parlamento può in qualche modo «suggerire» gli ambiti da regolare, a norma dell’articolo 225 del Trattato sul Funzionamento dell’Ue (Tfue).

L’obiettivo è creare un regime comune di controllo non solo per le armi in senso stretto, ma per tutti quei prodotti contenuti nella Lista comune militare dell’Unione europea: missili, mezzi corazzati, esplosivi e agenti chimici, software utilizzati per operazioni militari e tutti i tipi di tecnologia impiegata in teatri di guerra. 

Secondo questo schema, ogni azienda bellica dovrebbe chiedere al proprio Stato di appartenenza una licenza per l’esportazione, che verrebbe concessa solo in presenza di determinate condizioni nel Paese di destinazione del carico. Il testo illustra nove criteri: rispetto degli obblighi internazionali (non si esporta a uno Stato sotto embargo di armi Onu, come la Libia o la Repubblica Centrafricana); rispetto dei diritti umani, assenza di conflitti armati o contese territoriali, comportamento dello Stato compratore nei confronti della comunità internazionale, assenza di rischio di riesportazione, sicurezza degli Stati dell’Ue, compatibilità della tecnologia esportata con le condizioni di chi la riceve e assenza di pratiche corruttive nella compravendita.

«Otto di questi punti derivano dai criteri della Posizione comune del Consiglio, a cui si aggiunge quello sulla corruzione, che consideriamo necessario dopo il dialogo con innumerevoli organizzazioni della società civile. Il regolamento è più un modo per rendere efficaci le attuali regole che per introdurne di nuove», dice l’eurodeputata.

Il punto cruciale, però, riguarda il modo di stabilire i criteri in maniera univoca e quindi di includere o escludere determinati Paesi dalla lista degli importatori autorizzati. A questo proposito verrebbe istituito un comitato, il Common Risk Assessment Body, composto da esperti indipendenti, scelti dalla Commissione e privi di interessi nel settore. A loro spetta il compito di fornire, ogni sei mesi, delle raccomandazioni sulla cerchia degli Stati autorizzati, prendendo in considerazione tutti i rischi connessi all’export militare. 

Una volta prodotto il rapporto, la Commissione valuterà eventuali modifiche all’elenco, che dovranno essere approvate da Consiglio e Parlamento europeo: in questo modo i vari Stati del mondo possono entrare o uscire dalla lista in tempi brevi, se cambia la situazione sul loro territorio.

Agli Stati l’ultima parola
L’esecutivo comunitario, comunque, non avrà il potere materiale di fermare la vendita di armi da parte di un Paese membro che vuole portarla a termine nonostante le raccomandazioni contrarie del Common Risk Assessment Body. I governi nazionali, tuttavia, sarebbero tenuti a notificare di aver emesso una licenza di esportazione «sconsigliata» e presentare una giustificazione scritta agli organi competenti di Commissione e Parlamento europeo. 

Allo stesso modo, c’è una sorta di «clausola di salvaguardia» per i casi in cui l’esportazione di armamenti sia considerata necessario per la sicurezza nazionale: «In questi casi è prevista una deroga applicando l’articolo 346 del Tfue», sottolinea Hannah Neumann. Sicuramente, gli Stati sarebbero costretti a una maggiore trasparenza: «L’obbligo di giustificazione rende più difficile il rilascio di licenze di esportazione contrarie ai criteri comuni. Lo spirito del regolamento è quello di migliorare la consapevolezza dei cittadini sul tema e aumentare la pressione pubblica su quei Paesi che si discostano dalla valutazione dei rischi fatta a livello comunitario».

L’europarlamentare non si sbilancia sui possibili «alleati» in questa iniziativa, che potrebbe incontrare parecchia resistenza, visto che tre quarti degli armamenti prodotti nell’Ue vengono venduti al di fuori dell’Unione, con Stati e aziende riluttanti a perdere quote di mercato.

Nel ventennio appena trascorso, gli Stati europei hanno venduto un quarto delle armi mondiali, secondo l’analisi dello Stockholm International Peace Research Institute: tra il 2016 e il 2020 Francia, Germania, Spagna e Italia sono fra i primi dieci esportatori al mondo. Alcune di queste armi sono finite in Libia, Yemen, Siria, o Repubblica Centrafricana, come ricostruito da un’inchiesta di Lighthouse. Il business è florido, ma regolarlo meglio converrebbe anche all’Europa.

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