Over-fishingLa “guerra del pesce” è l’ultimo atto della Brexit

La pesca intensiva Oltremanica ha sfruttato per decenni il vuoto normativo, ma ora la più grande azienda ittica britannica, Young's Seafood, ha promesso che non si rifornirà più da chi contribuisce a mettere in pericolo la biodiversità

Stephen Momot/Unsplash

La tutela della biodiversità marina ha l’occasione di riunire ciò che la Brexit ha diviso. La pesca è stata, ed è tuttora, uno di quei temi su cui lo scontro tra Londra e Bruxelles sembra essere permanente, anche a divorzio avvenuto. Ora, però, la più grossa azienda britannica dell’industria ittica minaccia di smettere di rifornirsi dai paesi costieri, senza differenze tra Regno Unito ed Europa, se questi non ridurranno il cosiddetto over-fishing, cioè la sovrapesca che mette a repentaglio la sopravvivenza di diverse specie. 

La ditta in questione è la Young’s Seafood, ha oltre duecento anni di storia e, per dare un’idea delle proporzioni, da sola copre circa il 40% del pesce mangiato sulle tavole inglesi. E Oltremanica se ne consuma più che nel continente: sono più numerose le fisheries di qualsiasi altro fast food, McDonald’s compreso, e metà delle famiglie prepara il fish and chips anche a casa, tradizionalmente di venerdì. La Young si è unita ad altri colossi, anche della distribuzione come le catene di supermercati Tesco e Aldi, nella richiesta di azioni concrete per proteggere le varietà più esposte. Su tutte, sgombri, aringhe e melù. 

La pesca intensiva ha sfruttato per decenni il vuoto normativo, quando non la rivalità tra nazioni. Fino agli anni Settanta, nell’oceano Atlantico settentrionale sono state addirittura combattute guerre per il merluzzo (le cod wars tra Regno Unito e Islanda), con speronamenti tra pescherecci e persino un caduto. Non più tardi della scorsa primavera, è andato in scena un replay di quel periodo al largo della minuscola isola di Jersey, dove un incidente tra pescatori ha aperto un caso internazionale e una (incruenta) battaglia navale con la Francia. Per decenni, le potenze non si sono messe d’accordo sulle rispettive «quote di pescato», con il risultato di sforarle sistematicamente. In totale, per 4,8 milioni di tonnellate, ma il dato riportato dal Guardian parte «solo» dal 2015.  

Tra i responsabili, oltre a Ue e Gran Bretagna, ci sono Russia, Norvegia, Islanda, Isole Fær Øer e Groenlandia. Anche quando i limiti ci sono, sono comunque più alti di quelli raccomandati dalla scienza. Nel caso delle tre specie menzionate sopra – cioè sgombri, aringhe e melù – le “quote” superano rispettivamente del 41, del 35 e del 25 percento la soglia. Oltrepassarle significa compromettere la sopravvivenza delle specie. Per esempio, la popolazione delle aringhe si è contratta del 36% nell’ultimo decennio; ci aveva messo vent’anni a riprendersi dall’over-fishing degli anni Sessanta.

«Il cambiamento climatico rende ancora più urgente agire  – è l’appello di Erin Priddle, direttrice del ramo nordeuropeo della no profit Marine Stewardship Council. Chiediamo agli Stati di mettere da parte gli interessi nazionali e di impegnarsi ad adottare misure per permettere che in mare resti abbastanza pesce da ricostituire i banchi». Anche la Young’s, in un comunicato, ha condannato come «una minaccia inaccettabile» il fatto che le quote siano stabilite in modo unilaterale dai paesi. 

Il Fisheries Act varato nel 2020 dal governo britannico riconosce otto obiettivi, sei dei quali riguardano la sostenibilità e la salvaguardia dell’ambiente. Nei mesi scorsi è rimasta lettera morta, anche perché Downing Street non ha rinunciato alle dispute con Bruxelles e, soprattutto, con Parigi, sull’onda del malcontento dei pescatori inglesi, tra i penalizzati dallo scisma che sono stati decisivi a provocare (tra le altre cose, navigando sul Tamigi per sostenere la causa secessionista al referendum).

A ottobre, quattordici stati europei hanno scritto a Londra per lamentarsi dei propri diritti di pescaggio, ritenuti insufficienti. Cioè per pescare di più, non di meno. È avvenuto su impulso della ministra francese, Annick Girardin. In quel testo, però, la tutela della biodiversità non compare, a differenza di svariati tecnicismi. Le stesse nazioni sono parte del problema. Invece di discutere di sovranità e licenze di pesca, servirebbe un’intesa internazionale su quote meno predatorie. «Chi dorme non piglia pesci» non è mai stato un proverbio più azzeccato. Anche perché quei pesci, se non si rivedono gli attuali ritmi, saranno sempre più scarsi.

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