Fratelli di populismo Trump, Salvini, Meloni e la minacciosa attualità delle loro pulsioni eversive

Alla Casa Bianca c’è Biden, a Palazzo Chigi c’è Draghi, Matteo&Giorgia non ne azzeccano una da mesi, i Cinquestelle annaspano. Pericolo passato? No. L’internazionale bipopulista, in Italia come negli Stati Uniti, è forse in una fase di riflusso ma rimane il pericolo più grande (e più urgente da arginare) per le democrazie liberali

AP/LaPresse

Qualunque cosa pensiate di quello che è emerso dall’inchiesta di Fanpage su Fratelli d’Italia e della reazione di Giorgia Meloni, diciamo come minimo estremamente garantista – per quanto appaia difficile immaginare che celebrazioni di Hitler e proposte di finanziamenti in nero, diversamente montate e contestualizzate, possano divenire fulgidi esempi di tolleranza e rigore morale – non dovreste dimenticare che meno di un anno fa un tentato colpo di Stato fascista, per quanto goffo e grottesco, c’è stato davvero, negli Stati Uniti. E le reazioni della presidente di Fratelli d’Italia, ma anche di Matteo Salvini e di tanti giornalisti e intellettuali dell’area sovranista, non sono state meno indulgenti.

Tra novembre 2020 e gennaio 2021, infatti, Donald Trump ha tentato in ogni modo di spingere il suo partito a non riconoscere il risultato delle elezioni, ha sostenuto contro ogni evidenza di avere stravinto, ha accusato i democratici di brogli e ha chiesto a tutti i repubblicani che avevano un ruolo nel processo di conteggio, certificazione e proclamazione del voto di bloccare tutto. Il motivo per cui gli Stati Uniti non sono sprofondati nella guerra civile è che grazie al cielo il vantaggio di Joe Biden era amplissimo e i singoli esponenti repubblicani chiamati direttamente dal presidente uscente non se la sono sentita di mentire così spudoratamente per tentare di rovesciare il verdetto delle urne. Non per questo Trump ha smesso di ripetere le sue assurde accuse, arrivando fino al punto da aizzare i suoi sostenitori ad assaltare il Congresso, armati, pur di fermare la regolare proclamazione del vincitore.

Per gli uomini di mondo che tendono sempre a sminuire le pulsioni eversive dei populisti riducendo tutto a innocuo folclore, ricordo che quell’assalto ha causato cinque morti e tredici feriti.

E adesso andatevi a rileggere le dichiarazioni di Meloni, Salvini e dei loro sostenitori in merito: il modo in cui fino all’ultimo hanno continuato ad accreditare l’idea che le elezioni americane fossero state truccate, come sostenuto da Trump, e con quali circonlocuzioni abbiano tentato di assolverlo persino dalla spedizione fascista contro il Parlamento da lui istigata.

Se pensate che si tratti ormai di acqua passata, vi sbagliate. Anzi, il problema è proprio questo: la diffusa convinzione che la minaccia non sia più attuale. Trump ha lasciato la Casa Bianca, a Palazzo Chigi è arrivato Mario Draghi, Salvini e Meloni non ne azzeccano più una da mesi, il Movimento 5 stelle annaspa, Giuseppe Conte si è già stancato di fare il capo partito: di cosa ci dovremmo preoccupare? Di un sacco di cose, purtroppo, da entrambi i lati dell’Atlantico.

Cominciamo dagli Stati Uniti. Due settimane fa Robert Kagan – uno dei più noti intellettuali neoconservatori, fervente sostenitore della guerra in Iraq ai tempi di George W. Bush – ha scritto un lungo saggio sul Washington Post, per lanciare l’allarme: Trump non è affatto uscito di scena, sta continuando ad alimentare la teoria dei brogli, e soprattutto sta rafforzando la sua presa sul partito repubblicano, in modo da essere sicuro che la prossima volta, quando si tratterà di negare la vittoria degli avversari, nessuno lo lascerà solo. Se poi quella vittoria, come è più che ragionevole prevedere, fosse meno ampia della volta scorsa, è evidente che le cose potrebbero mettersi male sul serio.

Quello che i repubblicani stanno già facendo in diversi Stati, con norme mirate a restringere in ogni modo possibile l’effettivo esercizio del diritto di voto nelle zone in cui sono più numerose le minoranze afroamericane, per fare un esempio, la dice lunga sulla china presa dall’intero partito.

Il problema, in America come in Italia, è che in troppi, a destra come a sinistra, continuano a sottovalutare il pericolo e a ragionare secondo una scala di priorità del tutto anacronistica. Il pericolo principale per la democrazia liberale viene dal populismo. Dunque fa benissimo l’Economist a prendersela anche con la «sinistra illiberale», quando si riferisce alle pulsioni intolleranti e antidemocratiche di certi movimenti estremisti, ma fa malissimo quando mette nella stessa categoria la sinistra radicale per proposte economiche che si possono legittimamente non condividere, ma che certo non rappresentano una minaccia per la democrazia. È lo stesso strabismo che a sinistra induce a dare la patente di progressisti – e magari persino di fortissimi punti di riferimento nel ramo – a chi si batte per l’abolizione della prescrizione e promuove leggi chiamate “spazzacorrotti”, salvo poi svegliarci di soprassalto e gridare allo scandalo perché Mimmo Lucano, per qualche presunto pasticcio amministrativo, si becca una condanna a tredici anni, che non diamo nemmeno a chi compie una strage.

Può darsi che in questo momento il populismo sia in una fase di riflusso. Una sensazione che in Italia sarà probabilmente confermata dai risultati delle amministrative, con il rischio di alimentare ulteriori illusioni. Quello che è certo, al momento, è che gli argini di cui disponiamo sono assai bassi, e nessuno sembra preoccuparsene minimamente.

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