«Ho preso tutto quello che poteva entrare in valigia. Fatto forza a mio fratello minore e salutato la casa dove sono cresciuto. Ci siamo sentiti soli. Abbiamo abbracciato i nostri genitori, asciugando le loro lacrime con i nostri maglioni. È l’ultima volta che siamo stati tutti insieme come famiglia». Con voce rotta e lo sguardo di chi ha troppi traumi per avere solo 25 anni, Salvatore ripercorre gli ultimi istanti della sua vita a Casal di Principe. Una vita da emarginato, da mosca bianca; Salvatore, i suoi genitori e suo fratello hanno deciso di non far parte del sodalizio che da generazioni lega il suo cognome alla Camorra.
Un famiglia affiliata ai Casalesi, insospettabile e ben mimetizzata nell’economia legale. Appalti, edilizia, ma anche smaltimento di rifiuti ed estorsioni. Il clan di appartenenza è quello di Francesco Bidognetti, soprannominato Cicciotto ’e Mezzanotte, boss camorrista ed ex braccio destro di Francesco Schiavone. «Anche se è detenuto dal 1993, Bidognetti continua ad avere un ruolo chiave all’interno del clan, nonostante sia ristretto al 41 bis. I miei zii e i miei cugini fanno tutti capo a lui, anche se il clan si è indebolito dopo le faide con gli Schiavone, gli arresti e i pentimenti», spiega Salvatore.
A 22 anni Salvatore ha deciso di lasciare casa con il fratello di due anni più piccolo. Destinazione: bassa Toscana, dove potevano contare sull’appoggio di conoscenti e compaesani. «Non era più vita la nostra. Abbiamo sempre guardato tutto da dietro un vetro. Molti dei nostri compagni sono diventati boss o sono morti durante le guerre tra clan. Mio padre invece ha sempre chiuso le porte a ogni tipo di proposta da parte della Camorra e della nostra famiglia, dimostrando coraggio», spiega il ragazzo.
Ma cosa significa rompere un legame di sangue con i Casalesi? «Spezzare il patto che ti rende una loro proprietà, e per cui devi essere sempre pronto a soddisfare ogni loro ordine – a costo anche della vita – ha un prezzo molto alto» assicura Salvatore. Provenire da una famiglia di teste di legno e camorristi fa sì che il tuo futuro sia già segnato. E l’unico modo per uscirne «è con le proprie forze, perché per lo Stato non sei nulla: né collaboratore, né testimone di giustizia».
L’Italia in questo campo non ha mai trovato gli strumenti giusti per intervenire. Molti anni fa in Calabria una manciata di giudici provarono ad allontanare i minori dalle famiglie di ’ndrangheta (che per struttura e per credibilità è molto più solida della camorra ed è molto più difficile vedere figli di ’ndranghetisti scendere in piazza contro il padre), avvalendosi anche della collaborazione di testimoni di giustizia come Lea Garofalo, Piera Aiello o Ignazio Cutrò che hanno deciso di denunciare persone molto vicine a loro interrompendo legami di amicizia se non addirittura familiari. Ma non servì a nulla.
Idem a Napoli pochi anni fa. Un decreto temporaneo di affidamento del giudice del Tribunale dei minori di Napoli, che accoglieva la richiesta della Procura minorile e della Direzione distrettuale antimafia per allontanare dal contesto familiari due minori figli di un camorrista latitante, è stato seguito da un assalto armato contro la stazione dei carabinieri di Secondigliano, con quaranta colpi esplosi. Un commando armato di due kalashnikov che in meno di dieci secondi ha vomitato una quantità di fuoco impressionante sulla caserma dell’Arma dei carabinieri. Un attentato di stampo camorrista-terrorista che dimostra l’impotenza delle istituzioni hanno sulle dinamiche interne di queste famiglie.
«Non mi vergogno di dirti che per salvare la nostra vita non abbiamo mai testimoniato o denunciato. Avimmo fatto a’ uèrra, ogni giorno. Mio padre ha ricevuto prima delle pressioni da parte di fratelli e zii, che sono diventate poi minacce da tutto il mandamento. Fino all’esplosione della pompa di benzina che avevamo in gestione. Solo perché non volevano unirci ai loro affari. Da quel momento è crollato tutto», confessa Salvatore. Combattere da soli un clan è impensabile, ma l’alternativa «è vivere nella paura, perché da indifferenti siamo passati a essere loro nemici».
Lo stigma di traditori rese la famiglia di Salvatore un bersaglio troppo facile. «Chi te ne fa una te ne fa ciento, mi disse mio padre, che aveva cominciato ad andare in giro con una pistola», chiosa il ragazzo. Il trattamento ricevuto dimostra come la camorra ha ormai dimenticato la “legge d’onore”, che per decenni ha protetto donne, bambini e in parte i familiari. A dimostrarlo sono anche i dati dal 1993 al 2018: la Campania è una regione piegata dalla violenza camorrista e seconda per numero di vittime solo dopo la Sicilia: 203 morti in quest’arco temporale.
«I Casalesi sono gli abitanti di Casal di Principe, o sei con loro o contro di loro. C’è anche Casapesenna, Comune confinante con Casal di Principe, dove ha comandato la famiglia di Michele Zagaria. Per la disperazione, quando non avevamo più la pompa di benzina e mio padre non sapeva come mettere cibo in tavola, abbiamo pensato anche di chiedere protezione a quel clan. Ma abbiamo fatto di meglio: avimm trovàt nu’ lavorò, lontàn ra quell’’infèrn», singhiozza Salvatore.
Adesso i due ragazzi lavorano entrambi nella ristorazione, e quando possono mandano soldi a casa, dove il padre riesce a racimolare qualche entrata con espedienti e lavoretti saltuari, nonostante i boicottaggi del clan che hanno fatto terra bruciata intorno al capo famiglia. «Con la camorra si lavora, senza no. È vero. Ma non nel nostro caso. Con orgoglio, in un modo o nell’altro, non ci piegheremo mai a loro», conclude Salvatore.