Gli imperi vanno e vengono. Quelli greco, romano, bizantino, spagnolo, britannico, ottomano, abbaside, persiano, mongolo, moghul e tanti altri sono tutti scomparsi. Nelle frontiere, nel diritto, nell’architettura e nella lingua ne rimangono le vestigia, ma come entità politiche non esistono più. Si potrebbe pensare che in Cina sia successo lo stesso: non ha più dinastie e imperatori, e l’antico palazzo reale, la cosiddetta Città proibita, è ormai un’attrazione turistica di Pechino.
Ma la Cina è un impero diverso dagli altri: in larga misura, esiste ancora. Nella sua veste di stato nazione, è una versione delle entità politiche cinesi indipendenti che in precedenza si formarono più o meno nella stessa area geografica. Il sistema politico cinese, nella sostanza, si è dimostrato davvero resistente. L’epoca delle dinastie imperiali in Cina è durata assai a lungo, ben 2100 anni. Noi in Occidente tendiamo a considerare la storia cinese una serie di dinastie, una di seguito all’altra, quasi fossero inquilini che si susseguivano nella Città proibita; quando il contratto di affitto di una dinastia scadeva, subentrava un’altra coppia regale; per noi, i nomi degli svariati imperi possono sembrare diversi, da Tang a Song a Ming, ma sono più o meno intercambiabili.
Le cose non andarono proprio così. In certi periodi, spesso lunghi, la Cina era divisa in stati avversari o dominata da invasori stranieri. Anche se le diverse dinastie avevano alcuni tratti simili, essendo tutte monarchie verticistiche, non erano affatto identiche: ciascuna aveva caratteristiche proprie, adeguate alla sua epoca, e le incarnazioni successive sviluppavano le istituzioni e le ideologie create dai loro predecessori.
Tuttavia, l’aspetto più incredibile della storia politica della Cina è la frequenza con cui venne ricostituito l’impero. La Cina avrebbe potuto facilmente seguire lo stesso percorso dell’Europa, dove un’area con origini culturali e storiche comuni a un certo punto si divise in paesi in competizione con lingue, governi e obiettivi propri. Lì invece i pezzi venivano sempre rimessi insieme. L’idea di una “Cina” unica, formulata prima dell’epoca di Cristo, reggeva saldamente. Se la Cina non era unita, la sua classe politica ogni volta desiderava che tornasse a esserlo. Il venerato romanzo cinese del Trecento Il romanzo dei tre regni inizia con questa frase: «L’impero, a lungo diviso, deve unirsi. A lungo unito, deve dividersi».
Potrebbe sembrare che la Cina di oggi neghi questa massima. L’ultimo imperatore fu cacciato dal trono nel 1912. Il governo di Pechino si considera comunista, la sua ideologia di fondo si basa sul marxismo-leninismo (importato da un altro filo della storia del mondo). La Cina moderna non è un impero, o una dinastia, ma uno stato nazione costituito come quelli occidentali. È membro della comunità delle nazioni, fondata in base alle norme che in Europa regolano le relazioni internazionali.
Ma il regno cinese del XXI secolo somiglia assai più ai suoi predecessori imperiali di quanto non appaia a prima vista. La struttura del governo attuale non è poi così diversa da quella delle dinastie, creata per la prima volta duemila anni fa: uno stato centrale, con il potere accentrato nella capitale, che controllava il paese grazie a una burocrazia capillare. Le province, allora come oggi, spesso godevano di un certo livello di autonomia non ufficiale, e gli alti burocrati della capitale, allora come oggi, vedevano i loro propositi vanificati di continuo da funzionari con spirito indipendente delle lontane periferie. Esiste un proverbio cinese più vero oggi di quanto non sia mai stato: «Il cielo è in alto e l’imperatore è lontano».
In fin dei conti, comunque, l’ordine imperiale cinese era un’autocrazia. Non c’erano limiti ufficiali al potere dell’imperatore, e il suo comportamento e le sue decisioni venivano tenuti a freno solo da ingiunzioni morali, precedenti di corte e talvolta consiglieri con una forte volontà. Ma tecnicamente la parola dell’imperatore era legge. Kangxi, imperatore della dinastia Qing, scrisse: «Concedere la vita e dare la morte – questi sono i poteri di un imperatore». E non stava affatto esagerando.
Oggi in Cina non c’è una singola persona che da sola detenga il potere di vita e di morte: la Repubblica popolare, costituita nel 1949, ha una costituzione, un procedimento legislativo e un sistema giudiziario.
Tale divisione dei poteri però esiste solo sulla carta, mentre nella pratica la definizione di Kangxi suona ancora vera. I massimi dirigenti possono fare quello che desiderano, e quadri di partito, giudici e funzionari pubblici eseguono quanto viene ordinato. Chi sfida lo stato viene trattato con brutalità. Come minimo, il sistema politico cinese del XXI secolo è al limite del totalitarismo. Nel 2018 l’attuale presidente, Xi Jinping, ha fatto abolire dalla costituzione del paese i limiti di tempo alla sua permanenza in carica, e questo significa che se vuole può regnare a vita come un imperatore. E i mandarini imperiali, spesso paranoidi, potevano solo sognare di mettere le mani sulla moderna tecnologia grazie alla quale oggi Xi può monitorare le telefonate, i messaggi, le mail, i movimenti, le abitudini di acquisto e le transazioni finanziarie dei cinesi.
L’attuale regime sta diventando più simile alle dinastie per aspetti che influenzano direttamente la sua visione del mondo e le sue azioni sulla scena mondiale. Il partito comunista cinese è nato un secolo fa per reazione della Cina allo scontro con le potenze occidentali; i suoi fondatori, come molti altri intellettuali all’epoca, credevano che lo stato cinese e le istituzioni su cui si basava fossero poco adatti al mondo moderno: se la Cina non si fosse liberata delle sue antiche usanze, il popolo cinese sarebbe stato condannato alla schiavitù coloniale, alla mercé degli stati europei, più potenti.
Per buona parte della sua esistenza il partito comunista è stato impegnato a sradicare tutti gli aspetti della Cina tradizionale, le sue religioni, le sue filosofie, i valori familiari, l’istruzione, il sistema economico eccetera eccetera. La missione del comunismo, in fondo, è di distruggere la società esistente, corrotta, e sostituirla con un’utopia libera dallo sfruttamento. «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», come recita il mantra.
Ma la Cina moderna, con il suo capitalismo selvaggio, i parcheggi stipati di Tesla e i lussuosi centri commerciali, non somiglia a nulla del genere, e dunque i suoi dirigenti sono impegnatissimi a far rivivere la cultura tradizionale che si sono sforzati tanto di sradicare. Il presidente Xi promuove personalmente gli antichi codici etici, la letteratura e l’ideologia governativa di epoca imperiale, e il regime comunista si trasforma sempre di più in un nuovo genere di dinastia.
Per molti di noi occidentali, questa svolta verso il totalitarismo è angosciante. Da circa centoventicinque anni in Cina desiderano più diritti democratici, un’aspirazione che è sempre rimasta irrealizzata. L’autoritarismo però è più conforme alla storia del mondo cinese: a differenza di noi che siamo in Occidente, i cinesi non possono ispirarsi con entusiasmo ad antiche repubbliche, e nel corso millenario dello sviluppo politico cinese l’ideale politico è stato la monarchia autoritaria. Questo non vuol dire che i cinesi desiderino o meritino di vivere sotto regimi oppressivi, ma significa che i capi cinesi per creare un governo rappresentativo di tipo occidentale dovrebbero guardare a modelli europei o americani, anziché al proprio passato.
Questo vale anche in senso più generale. Quello che per noi in Occidente è normale, o persino fondamentale per una società moderna, risulta abbastanza nuovo per i cinesi. Il concetto di diritti umani inalienabili, la parità tra stati nella diplomazia internazionale, il governo costituzionale, un’autorità giudiziaria indipendente, la parità di genere, sono tutti concetti nuovi per la Cina e non fanno parte della sua lunga storia. (Per la verità, sono abbastanza recenti anche in Occidente.)
Quando guardiamo il mondo, tendiamo a dimenticare che altri popoli non condividono la nostra evoluzione politica, sociale ed economica, e quindi magari non condividono nemmeno i nostri ideali e le nostre priorità.
Con questa affermazione non si intende tanto giustificare la repressione cui è soggetto oggi il popolo cinese, quanto sottolineare che la storia cinese del mondo ha prodotto esiti diversi da quella dell’Occidente. E mentre la Cina ascende sulla scena mondiale, porta con sé il bagaglio che si è trascinata dietro nel suo lungo viaggio storico, con tutti gli onori e i disonori annessi.
da “L’impero interrotto. La storia del mondo vista dalla Cina”, di Michael Schuman, (traduzione di Luisa Agnese Dalla Fontana), Utet editore, 2021, pagine 430, euro 25