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Joe Biden ha convocato per il 9 e il 10 dicembre, a Washington, un Summit for Democracy con esperti dei governi, delle organizzazioni multilaterali, della società civile e del settore privato per sollecitare idee coraggiose e praticabili in difesa della democrazia.
Non viviamo più, però, nei gloriosi anni Novanta, quando si archiviava il comunismo e mezza Europa cominciava ad assaporare la libertà. Sono trascorsi trent’anni da quella febbricitante eccitazione democratica che fece pensare che la storia fosse finita con l’inesorabile vittoria della società aperta e la sconfitta della tirannia, compresa quella del proletariato.
Si credeva, allora, che le idee avessero conseguenze e quindi anche un potere formidabile di cambiare le cose. Era così, ma ora non più. Sono finiti i tempi in cui le idee di un anziano professore di Boston contribuivano ad abbattere le dittature e a mobilitare i movimenti democratici e poi crescevano fino a diventare una guida pratica per pianificare strategicamente l’abbattimento dei regimi autoritari.
Gene Sharp, nato in Ohio nel 1928 e morto a Boston nel 2018, è stato un intellettuale, più che un rivoluzionario, un guerriero nonviolento, un Che Guevara pacifista, un improbabile Lawrence d’Arabia del nuovo secolo. Timido, capelli bianchi, occhi blu. Sul muro dietro la scrivania della sua casa-ufficio di East Boston c’era un adesivo anti Milosevic. Scritto in serbo, diceva «Gotov Je!». «È finito», il despota è cotto. Sharp si occupava di questo, di cuocere a fuoco lento i dittatori.
Ai movimenti antiautoritari di tutto il mondo, il professore di Boston ha fornito le munizioni della nonviolenza, le strategie per la libertà, i 198 metodi per minare le fondamenta dei regimi autoritari. Con il suo manuale di autoliberazione popolare ha ispirato le rivolte arabe d’inizio 2011, la primavera nordafricana e mediorientale che ha travolto e fatto vacillare i regimi autoritari che sembravano inamovibili, ma, come spesso accade, il giorno prima le rivoluzioni sembrano sempre impossibili e il giorno dopo improvvisamente diventano inevitabili. In mezzo, tra l’impossibilità e l’inevitabilità, ci sono quelli che lottano quotidianamente per liberarsi dell’oppressore, che progettano la liberazione, che provano a cambiare il regime.
Le idee di Gene Sharp hanno influenzato le rivoluzioni democratiche e nonviolente in Serbia alla fine degli anni Novanta, quelle colorate in Ucraina, in Georgia, in Kirghizistan negli anni successivi. E dieci anni fa quelle tunisine ed egiziane. Anche l’autocrate venezuelano Hugo Chávez aveva accusato Sharp di aver ispirato le rivolte antigovernative nel suo Paese. Nel 2007, in Vietnam, i militanti dell’opposizione democratica sono stati arrestati mentre distribuivano un suo libro del 1993, “From Dictatorship to Democracy”, un manuale di strategia per la liberazione dalle dittature. A Mosca, nel 2005, le librerie che vendevano la traduzione in russo del libro sono state distrutte.
Gli scritti di Sharp, tradotti in 28 lingue, sono stati studiati dalle opposizioni in Zimbabwe, in Birmania e in Iran. Nel 2008 gli ayatollah islamici di Teheran hanno indicato Sharp come un agente della Cia incaricato di guidare le operazioni segrete di infiltrazione americana in giro per il mondo.
Dai dispacci diplomatici catturati da Wikileaks si è scoperto che la giunta birmana credeva che Sharp fosse l’ideologo di un complotto internazionale per far cadere il regime militare, ma anche che i dissidenti siriani erano stati addestrati dalle tecniche nonviolente di Sharp. Tutto era cominciato nel 1997, quando un militante polacco-americano, Marek Zelazkiewicz, ha fotocopiato le pagine di Sharp e le ha portate con sé nei Balcani, insegnando le tattiche di resistenza in Kosovo e poi a Belgrado.
I testi di Sharp sono stati tradotti in serbo e distribuiti segretamente tra i militanti dell’opposizione, in particolare tra gli iscritti di Otpor, un gruppo di opposizione giovanile anti Milosevic. Otpor, grazie anche ai 42 milioni di dollari forniti dal governo americano, ha esportato le tecniche di opposizione apprese dal libro di Sharp nelle ex Repubbliche sovietiche, organizzando seminari di resistenza democratica in Georgia, in Ucraina, in Ungheria.
Nel 2000 la Casa Bianca guidata da Bill Clinton ha aperto un ufficio a Budapest per coordinare le attività dell’opposizione democratica serba, fornendo anche mezzi, strumenti e tecnologia per diffondere notizie e informazioni alternative a quelle del regime. Il metodo Sharp si è diffuso. Addestrare gli addestratori, è diventato lo slogan dei suoi discepoli.
Nel 2003, sei mesi prima della rivoluzione delle rose, l’opposizione georgiana ha stabilito contatti con Otpor con un viaggio a Belgrado finanziato dalla Fondazione Open Society del finanziere americano George Soros, e proprio qui nasce la leggenda di Soros fomentatore democratico e spauracchio dei più recenti partiti sovranisti italiani e non solo. I militanti di Otpor addestrarono gli attivisti georgiani e in Georgia è nata Kmara, una versione locale di Otpor. I soldi sono arrivati da Soros e da una delle tante agenzie semi-indipendenti di cui si serve il Congresso di Washington per finanziare i gruppi democratici in giro per il mondo. In Ucraina è nato Pora, un altro gruppo democratico con forti legami con l’Otpor serbo e finanziato con 65 milioni di dollari dall’Amministrazione Bush. I militanti di Otpor, addestrati alle idee di Gene Sharp, sono diventati mercenari della democrazia, militanti della libertà, istruttori di tecniche anti regime. A spese del governo americano hanno girato il mondo per aiutare le opposizioni a organizzare una rivoluzione democratica.
La democrazia non è facile da imporre dall’esterno, ma promuoverla resta un dovere morale. Quella tensione liberatrice però oggi è totalmente sparita. Non solo non c’è più uno Sharp del XXI secolo, ma non c’è più nemmeno l’America a ricoprire quel ruolo da missionario della democrazia. Al contrario, c’è una brusca frenata delle istanze democratiche, alimentata dagli algoritmi che moltiplicano rabbia e risentimento. Le dittature si rinsaldano, i regimi parzialmente liberi aumentano, i Paesi democratici subiscono attacchi interni ed esterni e faticano a resistere all’ondata antidemocratica e antiliberale. Le classifiche di Freedom House segnalano arretramenti della democrazia e della libertà ovunque e la questione, oggi, è la tenuta delle società aperte, non più quella di espandere il raggio democratico.
In Italia, negli ultimi anni, abbiamo avuto un governo populista e sovranista, antieuropeo e antioccidentale, cui è seguito un secondo governo mezzo populista e mezzo d’establishment, ma tutto giustizialista e incapace di affrontare le emergenze per manifesta incapacità degli interpreti.
Poi è arrivato Mario Draghi a sistemare le cose, ma le spinte per promuoverlo al Quirinale al fine di rimuoverlo da Palazzo Chigi che si concretizzeranno o no a breve sono un evidente tentativo di archiviare il momento adulto del nostro Paese per tornare alle liti tra adolescenti che finiranno per consegnare le chiavi del governo a una destra sovranista che persegue interessi antinazionali e illiberali.
I manuali di Sharp e tutto quello che hanno scatenato erano un aiuto pratico e intellettuale, nobile e morale, per cercare di abbattere le dittature, ma nell’era dell’algoritmo sono materiali inservibili per evitare che una democrazia sprofondi nelle tenebre.
Eppure c’è un modo per salvare la democrazia italiana ed è, spiace dirlo per chi come me è stato un convinto sostenitore del sistema uninominale e maggioritario, l’adozione del sistema elettorale proporzionale. Su Linkiesta lo scriviamo dal primo mese del mio arrivo alla direzione, certo con Francesco Cundari che ne è da sempre sostenitore, ma anche con i miei editoriali.
Ne ho riletto uno dei primissimi, dell’ottobre 2019, e non potrei che riscriverlo.
«Si potrebbe fare subito qualcosa, l’unica cosa fattibile, per depotenziare una volta per tutte la pericolosità degli amici di Putin, qualcosa che non è una gloriosa alleanza strategica con la bad company del populismo guidata da Davide Casaleggio, quella semmai è resa incondizionata, ma l’approvazione di una legge elettorale proporzionale pura, senza trucchi e senza inganni, uguale identica a quella che ha guidato la Repubblica italiana dalla fondazione al 1993. Make Italy Proporzionale Again, direbbe l’altro amico di Salvini e di Putin: una leggina di un solo articolo che ripristina la legge originaria del 1948.
Lo scrivo a malincuore, da maggioritarista all’inglese della prima ora e da referendario per l’uninominale non pentito, ma anche da persona consapevole che esistono solo due sistemi elettorali, uno uninominale e maggioritario secco e l’altro proporzionale puro, perché tutti gli altri sono espedienti e tecnicismi da far morire di pizzichi chiunque non partecipi ai talk show televisivi che invece si infiammano a discutere di Mattarellum, Porcellum, Consultellum, Italicum e chissà che cos’altro potrebbero inventarsi adesso.
Il sistema maggioritario privilegia la governabilità, winner takes all, quello proporzionale la rappresentanza delle forze politiche. Il primo è in vigore nelle democrazie mature, il secondo in quelle meno stabili. Gran Bretagna e Stati Uniti votano da sempre col sistema dei collegi maggioritari, mentre Italia, Germania e Spagna storicamente ripartiscono i seggi in base ai voti ottenuti dai partiti».
E, ancora, «la Repubblica italiana è nata proporzionale, non solo perché un sistema di voto di questo tipo si sposava meglio con la forma di governo parlamentare che i padri costituenti ritennero saggio scegliere, ma anche per scongiurare, a macerie ancora fresche, qualche colpo di testa a favore di un altro Duce oppure una vittoria dei comunisti. Il sistema ha retto bene, la democrazia italiana è cresciuta, le tentazioni autoritarie sono state tenute sotto controllo e la Repubblica ha superato anche la grave crisi del terrorismo politico interno, di destra e di sinistra.
Con la caduta del Muro e poi del sistema dei partiti della Prima repubblica si è pensato di passare al maggioritario, di eleggere le persone nei collegi e di privilegiare la governabilità, grazie a una campagna politica intelligente e moderna capace di uscire dalle ovattate aule dei convegni per specialisti e di trasformarsi in referendum popolari che convinsero élite e popolo che fosse finalmente arrivato il momento di trasformare l’Italia in una democrazia adulta.
Quella spinta riformatrice ha portato alla legge sull’elezione diretta del sindaco, la migliore delle riforme fatte in quegli anni, quella sui governatori delle Regioni, cambiata un paio di volte, e quella mista 75 per cento maggioritario e 25 per cento proporzionale per il Parlamento. A un certo punto si è fermato tutto: il fallimento del referendum del 1999 che non ha superato il quorum per una manciata di voti, ottenendo comunque oltre il 90 per cento di sì all’abrogazione della restante quota proporzionale, ha decretato la fine dell’era del maggioritario serio, per lasciare il posto a miserie di bassa lega sublimate dall’autodefinizione “porcata” data dall’autore stesso della controriforma, il leghista Roberto Calderoli.
Tutte le successive ipotesi di riforma elettorale, quelle approvate e quelle bocciate dalla Consulta, sono state soltanto palliativi somministrati illusoriamente agli elettori per provare a conciliare sia le esigenze di governabilità sia quelle di rappresentanza. Non hanno funzionato e non potevano funzionare».
E, allora, dopo aver salvato il Paese dalla pandemia e dal default, il prossimo obiettivo deve essere quello di salvarlo dalle tentazioni autoritarie: «Tornare subito, subitissimo, al sistema proporzionale in purezza, quello che dei capitani si fa un baffo, che garantisce la presenza in Parlamento di tutti i partiti, che smussa gli angoli degli esagitati e che costringe i partiti a fare più politica e meno selfie».
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