Rileggendo DDGSe la malattia l’avesse concesso, ora la letteratura italiana avrebbe in Del Giudice il suo Carrère

Niente può dire meglio lo sguardo dell’autore de “Lo Stadio di Wimbledon” del verbo “traguardare”, nella sua doppia accezione: guardare tra due punti di mira un oggetto e guardare con la coda dell’occhio. E il romanzo non era il suo genere congeniale. Forse sarebbe quindi tornato a quel suo primo libro e avrebbe passato il fosso, scegliendo la non-fiction letteraria

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Ho riletto Del Giudice – mi sembrava giusto farlo. Ho ancora il ricordo di quel che è stata la Giulio Einaudi editore, per tutti noi “l’Einaudi”, e Daniele Del Giudice è stato l’ultimo scrittore italiano ad avere l’aria dello scrittore einaudiano. (Intendiamoci: oggi la Einaudi ha in catalogo uno dei migliori scrittori italiani, Michele Mari, e ha pubblicato i primi romanzi di Walter Siti, prima di perderlo con sciagura. Mari e Siti sono però due outsider, scrittori nati e cresciuti extra moenia). Pavese-Vittorini-Calvino è stata la filiera letteraria einaudiana, e Del Giudice è stato l’ultimo frutto di quella famiglia editoriale, e battezzato proprio da Italo Calvino.

Un certo fastidio per la ricorrente e orecchiata vulgata che vuole Del Giudice se non creatura almeno epigono di Calvino ha aggiunto quel frisson che muove alla lettura di autori notevoli ma non tanto da rileggerli altrimenti. “Lezioni americane” alla mano – è il nuovo “Siddharta” – gli orecchianti non perdono occasione per intonare la cantilena. È il solito problema: si confonde lo sfondo con le figure, il materiale d’uso con lo stile e così la forma, il clima letterario con la poetica. Capita, a chi intabarrato nelle formulette delle pseudo-scienze non intende le forme.

Il dato di fondo che accomuna Del Giudice a Calvino è la comune necessità di trovare nuove forme di rappresentazione narrativa, in consonanza con il linguaggio delle scienze e le realizzazioni tecniche che ne conseguono. Dove la parola chiave è rappresentazione. La prima differenza è fondamentale: Calvino è interessato alla logica tecnica, la tecnologia; Del Giudice è attratto dai prodotti, le cose, frutto delle tecniche costruttive. Calvino è uno scrittore visivo anche in senso metaforico, è interessato agli schemi formali che presiedono alla realizzazione e le iconografie; Del Giudice è uno scrittore interessato alla materialità degli oggetti realizzati, che sia un trenino della Märklin oppure l’anello di accelerazione del Cern, a Ginevra. (L’acceleratore di particelle vale il modellino del treno, solo più grande e complesso: un giocattolone). Sono cose e sono forme: vere presenze.

(Per andare al sodo: anno 1983: si pubblicano “Palomar”, di Calvino, e “Lo stadio di Wimbledon”, di Del Giudice. Basta leggerli fianco a fianco).

Bisogna guardare in Francia per trovare gli scrittori di riferimento, senza badare alle dichiarazioni di Del Giudice stesso (un beffardo propagatore di false piste): subito a Georges Perec e ai suoi due libri segnavia: “Le cose”, per l’appunto, e poi soprattutto “La vita istruzioni per l’uso”, che offre una narrazione centrata sulla rappresentazione di una realtà segnata dalla presenza di cose. (La poetica del puzzle di Perec non fa breccia in Del Giudice: è l’idea – la forma, quindi – di rappresentazione a far presa. È la strategia della rappresentazione a essere assorbita). Perec era l’ultimo anello della catena che attraverso Michel Butor risale a Michel Leiris: etnologo tardivo e critico d’arte, superbo scrittore sempre. Non è qui il luogo per approfondire: valga almeno ricordare che per Leiris e Butor gli oggetti sono analogici, non letterali. È questo il vero punto di partenza per stanare Del Giudice.

Il libro più importante (non l’opera migliore) è proprio “Lo stadio di Wimbledon” – e avrebbe potuto esserlo molto di più. Mi spiego. “Lo stadio” non è un romanzo e non voleva esserlo: è un primo tentativo di non-fiction narrativa, e in anticipo sui tempi. Non stupisce tanto che nella quarta di copertina d’allora Calvino lo dica “romanzo”, in ottemperanza alla convenzione editoriale per cui ogni forma narrativa “lunga” è romanzo; stupisce invece che nella ristampa d’oggi il risvolto di nuovo insista in una convenzione che non ha più senso, e anzi, raddoppi: «Nel 1983 Daniele Del Giudice apriva una nuova strada per il romanzo italiano». Era tutt’altro: Del Giudice apriva una possibile strada alla non-fiction letteraria italiana – e questo proprio mentre Cesare Garboli, Roberto Calasso e Claudio Magris riportavano il saggio dentro l’alveo naturale della narrazione. Una possibilità non intesa e un equivoco che pesa. Le occasioni mancate nella letteratura italiana fanno storia.

Il romanzo non è un genere congeniale a Del Giudice, come non lo è a Calvino. (Quest’ultimo si indispettiva del fatto che dicessero conte philosophique i suoi libri, affermando che non avevano una natura dimostrativa – aveva in parte ragione: è più corretto dirli conte iconographique: racconti di iconografie, originati da immagini) A dimostrarlo è soprattutto “Atlante occidentale”, 1985, dove Del Giudice tenta di far romanzo della visita al Cern a Ginevra centrando la narrazione su due personaggi di finzione: lo scienziato Brahe e “il vecchio scrittore” Epstein. I due personaggi non riescono a prender figura, consistenza romanzesca: vien da dirli figurine Liebig. La narrazione non si accende mai: è un romanzo non romanzato. Ben più interessante è il “Taccuino di Ginevra”, che nell’edizione del 2019, nella collana Letture (è la cosa più einaudiana che sia rimasta nel catalogo – sorvolo invece sugli orribili mini-Supercoralli dove è ripubblicato “Lo stadio”), è posposta al testo del romanzo. Ce n’è abbastanza per rimpiangere una versione non-fiction.

(Una precisazione: non ho una preferenza per la non-fiction narrativa rispetto al romanzo, anzi: credo che il romanzo debba fare il romanzo).

Torniamo a “Lo stadio”, il libro più importante. Il fatto più evidente è la peculiarità del tono narrativo: lo si può dire “freddo sentimentale”. Un ossimoro che dice la duplicità dell’autore. Un tono frutto di una scelta e di una inclinazione: la deliberata presa di distanza dell’autore dall’oggetto e i personaggi della narrazione e l’inclinazione simpatetica verso le cose, i manufatti che la abitano. (Non è forzatura espressiva: le cose e non le persone abitano i libri di Del Giudice). La distanza: «Penso a che cosa potrei invidiare al guardiamarina. Il modo come si concentra sull’angolo e sull’altezza, e l’abitudine a considerarsi in riferimento a qualche cosa. Oppure il modo di vedere: molto spesso traguarda [il corsivo è mio], è abituato a vedere per collimazione». Niente può dire meglio lo sguardo dell’autore del verbo traguardare, nella doppia accezione: guardare tra due punti di mira un oggetto, e guardare con la coda dell’occhio, in modo furtivo, senza farsi notare: in entrambe le accezioni, da una distanza. Il sentimentalismo: «Fuori, nella strada che va verso la stazione e il centro, guardo soprattutto le macchine. Certe Hillman o certe Humber, o le Wolseley e le Daimler, o certe Aston Martin che si vedono solo qui: rotonde e solide […] Vengono dagli anni cinquanta, sessanta, sono l’automobile nella piena maturità: […] prima dell’indifferenza affettiva alle forme, della pura e semplice funzionalità». Non è una scelta di gusto, quella è conseguente: le cose di DDG sono quelle della Civiltà delle macchine, l’età d’oro della meccanica e della precisione, e «prima dell’indifferenza affettiva [idem] alle forme»: perfetta clausola sentimentale. La distanza dalle persone, l’empatia per le cose – e la recitazione.

(La recitazione è il segreto dell’arte del saggio, l’interpretazione narrativa. Daniele Del Giudice avrebbe potuto essere saggista notevole: ha letto di sicuro “Il paradosso dell’attore” di Diderot: sapeva il talento della distanza. Si è limitato a far recitare i suoi vari alter ego: sempre quel sorriso, le goffaggini e lo scherzare – e lo sguardo a dire altro. Avrebbe voluto essere Popiove, il suo gatto).

La scena che rivela di che pasta è l’autore si svolge nella casa di Franca Malabotta. Qui il protagonista-narratore rileva quasi con noncuranza i quadri a una parete («Dopo un po’ mi sono accorto che sono tutti dello stesso pittore») – è la più bella collezione di opere di Filippo De Pisis, poi donata alla città di Ferrara – e si fissa invece su una collezione di sestanti («Leggo le stampigliature coi nomi delle città tedesche e inglesi dove furono fabbricati, seguo il profilo delle parti in ottone, non ossidate. Penso all’ultima volta che sono stati usati per fare il punto: l’uomo traguarda [idem], poi toglie l’occhio e studia di lato lo strumento, controlla il gioco delle viti senza fine»). Per concludere, quando infine passano per il garage l’occhio del narratore si fissa su una vecchia Borgward decappottabile: una meraviglia. L’isola del tesoro di Del Giudice era una officina meccanica.

Il libro migliore di Daniele Del Giudice è “Nel museo di Reims”, pubblicato nel 1988 nella bella collana mondadoriana L’Ottagono, diretta da Eileen Romano. (Sarebbe stato ripubblicato da Einaudi nella collana L’Arcipelago, nel 2010, per poi confluire nella edizione dei “Racconti”, nel 2016, nella collana Letture). È un racconto lungo – e sta bene da solo: un libro. Viene narrata la visita di Barnaba, «un ragazzo italiano alto e coi capelli neri ricci» che sta diventando cieco, al museo di Reims: vuole vedere il “Marat assassiné” di Jacques-Louis David. Lì incontra Anne, che si accorge della sua cecità avanzante e inizia a raccontargli i quadri. Nel farlo Anne segue la sua visione e inventa; Barnaba se ne accorge e non lo dice: condivide la menzogna. È un tocco di genio rivelatore. Facciamo un passo indietro: Barnaba, e con lui il narratore, è colto da subitanea empatia per Anne: è l’unico libro di Del Giudice dove succeda questo. Ora, sulla base di cosa si afferma l’empatia? Una menzogna condivisa – e non c’è niente che dica la distanza quanto la menzogna. La perfetta duplicità. Da qui bisogna partire per rileggere.

Del Giudice non toccherà più l’acme raggiunto in “Nel museo di Reims”: scriverà e pubblicherà i racconti sul volo riuniti in “Staccando l’ombra da terra” e altri testi meno rappresentativi, prima di essere confinato nella crudele distanza della malattia. Non sapremo mai dove la maturità di scrittore l’avrebbe spinto.

Rileggere oggi Del Giudice vuol dire percepire l’aria del tempo di allora, la passione letteraria che spingeva a cercare nuove forme letterarie: l’aveva fatto, con “Lo stadio di Wimbledon”. Mi piace pensare che se la malattia glielo avesse concesso sarebbe tornato al suo primo libro, avrebbe passato il fosso e scelto la non-fiction letteraria. La letteratura italiana avrebbe avuto il suo Emmanuel Carrère.

Daniele Del Giudice, “Lo stadio di Wimbledon”, Einaudi, ristampa 2021, 152 pagine, 15 euro

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