Dieci anni fa, il libro di uno sconosciuto con un bel titolo e un’aura di eleganza, “Un’eredità di avorio e ambra”, arrivò in libreria e finì per diventare un successo. (Ogni tanto succede, che un libro metta d’accordo lettori e leggenti). Un memoir, con al centro una collezione di netsuke, minuscole sculture giapponesi in avorio o legno, che furono nel 1899 dono di nozze di Charles Ephrussi, collezionista e mecenate parigino, ai cugini di Vienna e banchieri ricchissimi. Dopo molti anni la collezione, finita a un Ephrussi in Giappone, arriva nelle mani di Edmund de Waal, ultimo erede di una lunga vicenda famigliare e autore del libro.
“Un’eredità” vive della corrispondenza tra lo splendore dei netsuke e altre meraviglie, la storia della famiglia Ephrussi, ebrei di Odessa già commercianti di cereali e poi banchieri, una grande famiglia europea, e la prosa educata e risentita dell’autore. Con un atout importante: Edmund de Waal è un artista della ceramica e storico d’arte e così è sensibile alle opere: la belle matière e i valori tattili.
È un dettaglio fondamentale per intendere la qualità del nuovo libro di de Waal, “Lettere a Camondo”. Non corriamo, però: prima ascoltiamo de Waal: «Il modo in cui gli oggetti vengono tramandati è pura narrazione [il corsivo è mio]. […] Le eredità non sono mai banali. Che cosa viene ricordato e cosa dimenticato, nel passaggio? L’oblio può perpetuarsi, i possessori di un tempo esser via via cancellati, ma può anche verificarsi l’opposto, una lenta accumulazione di storie». Una dichiarazione di poetica, vien da dire – e con una lunga storia, borghese e europea.
Il nuovo libro di de Waal è ancora una narrazione centrata su un manufatto d’arte, in questo caso una casa, quel che era l’hôtel particulier Moïse de Camondo poi diventato il Musée Nissim de Camondo, e la storia di una famiglia della alta borghesia ebraica. Una casa che nasce intorno alle opere d’arte a cui offre spazio e tempo, memento di una vita dello spirito ed eredità di una avventura terrena; un homme de qualité, il conte Moïse de Camondo e una famiglia, i Camondo, partita da Costantinopoli e diramata nelle capitali europee. Una famiglia in consuetudine (c’è qualcosa in più, scopre de Waal) con gli Ephrussi, che avevano il loro hôtel particulier a pochi numeri di distanza, nella stessa rue de Monceau.
Lo dico subito: come “Un’eredità”, anche “Lettere a Camondo” non è una elegia in salsa mitteleuropea. È tutt’altro: una narrazione di memoria e riscatto, intrecciata alla storia di cose d’arte, manufatti di splendore che ornavano e segnavano il tempo delle famiglie che tenevano insieme la magnifica invenzione che è stata e rimane l’Europa borghese, che si voleva liberale e costruiva la modernità.
(Scrive de Waal a proposito delle cose e la loro consistenza: «Il mio lavoro è quello di realizzare cose, e il modo in cui gli oggetti vengono maneggiati, usati e tramandati non è un interrogativo secondario. Anzi, è il mio interrogativo». È il punto d’origine della narrativa di memoria dell’autore ed è la sostanza delle arti figurative: la materia pittorica plastica architettonica è sostanza e consistenza).
Questa volta de Waal sceglie il registro epistolare: il libro è fatto delle lettere che l’autore immagina di scrivere a Moïse de Camondo. Scelta sicura, che sottintende e esplicita la corrispondenza di sensibilità con l’amico di penna. «Caro amico», inizia la prima lettera, ma subito confessa di non sapere come chiamare il corrispondente («So che siamo legati da una tortuosa linea di parentela, ma di questo parleremo con calma. Perciò mi rivolgo a voi come amico. Vedremo poi nel prosieguo. Anche la formula di commiato mi mette a disagio…»). Pudore e complicità.
Non mancano la descrizione del protagonista e del contesto parigino e famigliare, la acquisita passione per gli archivi («Gli archivi sono un attestato di scrupolosità e questo, in tutta evidenza, è un luogo di concentrazione discreta e profonda»), poi una frase di W. G. Sebald che de Waal sente «vicino al cuore di ciò che ho bisogno di chiedere». È un lungo lavoro di interrogazione, il libro di memoria.
Il luogo è la rue de Monceau, spina di un quartiere dove si sono stabiliti e hanno eretto palazzi che sono di abitazione e rappresentanza le ricche famiglie ebraiche di tutta Europa, confidando in una Parigi «laica, repubblicana, tollerante, civilizzata». (Scopriranno in seguito con stupore e poi con orrore che la tolleranza era soltanto di comodo e di facciata). Qui Moïse de Camondo affida all’architetto René Sergent la ricostruzione del palazzo di famiglia in forme neoclassiche, con la facciata sul modello del Petit Trianon e gli interni un capolavoro di fluidità degli spazi e sapienza dei materiali. Un segno di appartenenza e di gusto impeccabile.
Moïse de Camondo è un uomo di mondo e un generoso mecenate: è membro di tutte le Société e frequenta i luoghi della distinzione. La sua casa è però altra cosa: è dono di prospettiva per i due figli, Béatrice e Nissim, e figura di quello che ritiene l’apice della cultura francese e europea: il Settecento illuminista e neoclassico. Voilà. Edmund de Waal coglie e sigilla: «Ho finalmente compreso il senso profondo della vostra casa, lo straordinario tentativo di far sì che questi spazi, uno di seguito all’altro, funzionino senza impacci né falsità. Volete allestire un palcoscenico ideale per la conversazione, il sapere, per quel momento, l’epoca dei lumi, in cui la cultura francese era all’acme della raffinatezza, della capacità di indagine».
«Questa casa è per Chardin» – ossia Jean-Baptiste-Simeón Chardin, il più forte pittore del Settecento e primo grande moderno. Trentatré incisioni di sue opere provenienti nientemeno che dalla Collezione Goncourt, disposte «in perfetto ordine» in un corridoio al primo piano. C’è una fotografia di una di queste alla parete, dove l’armonia tra la incisione, la cornice, le tinte delle modanature, i grigi e i crème, l’eleganza della composizione dicono lo splendore della serietà.
L’Hôtel Camondo è anche una perfetta casa moderna, una macchina per abitare (e godere di quello): «Il cibo che sale con il montavivande fino all’office dove c’è uno scaldapiatti, e spazio a sufficienza per controllare la mise en scène di ogni portata prima che nella boiserie si apra la porta di accesso alla sala da pranzo»: fluidità e economia degli spazi e perfezione dei gesti: la civiltà moderna.
Succede che la Storia, notaio della follia degli uomini, faccia il suo corso a sfascio: nella Prima guerra mondiale, nel 1917, muore il figlio Nissim, aviatore; poi Béatrice sposa Léon Reinach, vicino di casa in rue Monceau, la cui madre è la ricchissima Fanny, figlia di Betty Ephrussi. (Il cerchio con “L’eredità” e il suo autore si chiude). Dopo il matrimonio Béatrice se ne va. Moïse de Camondo rimane solo – per modo di dire, riceve e frequenta, lavora al suo capolavoro: la casa. Cambia però di segno il progetto: lo studio di Nissim diventa une chambre du souvenir, la casa un luogo di lutto, lieu de mémoire. Prende allora forma l’idea che porterà alla donazione. Scrive de Waal: «Elaborate il lutto. Questo dovrà essere il Musée Nissim de Camondo: l’atto concreto del vostro lutto». C’è ammirazione, nelle parole.
La morte trova Moïse de Camondo prima delle atrocità, nel 1935. Il 21 dicembre 1936 il museo viene aperto al pubblico. In quegli anni la voce degli antisemiti si alza sempre più forte; poi sarà il tempo dell’orrore. Arriverà il tempo della vergogna, per la nazione e i francesi: il tempo del collaborazionismo con i nazisti. Nessuna nazione è stata così zelante e organizzata nel collaborare allo sterminio. Niente potrà mai cancellare l’onta e la vergogna per la Francia.
Edmund de Waal compone le ultime lettere a Camondo sul filo del riscatto della memoria di famiglie come la sua di origine, gli Ephrussi, e le altre del racconto, i Camondo e i Reinach, le élite liberali di una modernità portata avanti e abbracciata: sostenitori delle arti e degli artisti di quella e donatori di tesori. Tutto dimenticato, in quegli anni di atrocità. Non vale dire nulla e lasciare al lettore. Basti guardare alle fotografie dei documenti di deportazione dei Reinach. L’orrore.
“Lettere a Camondo” è un memoir di grande suggestione narrativa, arricchita da un corredo fotografico di gran qualità (mortificata, va detto, dalla mediocre qualità della riproduzione a stampa); ed è il ritratto di un homme de qualité europeo e moderno. Sono le élite a fare le nazioni, non le mediocrità nei Parlamenti.