La levità della pietraSilvio Perrella, lo scrittore che sa tenersi alla larga dalla retorica del tufo

Con “Petraio“, un libro di prose che è un Tesoretto del narratore urbano, l’autore siciliano adottato da Napoli compie il primo passo di un nuovo cammino di possibile splendore narrativo. D'altronde, ha dalla sua una lingua levigata dall’esercizio della saggistica narrativa

Alessandro Pone/LaPresse

Alla fine Silvio Perrella ha saltato il fosso: ha scritto e pubblica un libro di prose liriche e conversevoli, meditazioni leggere e vaganti. Levità che è forma e poetica, in contrappunto all’oggetto dello sguardo: le pietre che fanno i muri, i ponti, le città. Il narratore urbano di “Giùnapoli“ ha cambiato luogo dello sguardo.

Il titolo è forte, dantesco: “Petraio”‚ – e in exergo, in splendida consonanza, si legge Osip Mandel’štam, dal “Saggio su Dante”: «La pietra è il diario impressionistico del tempo accumulato in millenni di intemperie. Non è solo passato, è anche futuro: possiede una sua periodicità. È la lampada di Aladino che penetra le tenebre geologiche dei tempi futuri». Solo un grande visionario come Mandel’štam poteva offrirci, grazie a Serena Vitale, una lampante lettura del poema dantesco e la pietra. Perrella ne ha inteso la forza e l’ha fatta sua, la tiene stretta. Come tiene al disegno di Vincenzo Gemito riprodotto sulla bella (un miracolo, ormai) copertina: “Scorfano”; una bestia petrosa, mi vien da dire. Il mare e la pietra: Napoli.Petraio è anche il nome di un quartiere di Napoli, la città che è luogo d’abitazione e d’adozione dell’autore. Dove la parola chiave è adozione. Perrella è siciliano e così abita la lingua italiana come un possidente dell’Isola le sue terre: con orgoglio – ma senza pregiudizio. (Ci sono due isole dove la lingua è e rimane alta, manzoniana: Milano e la Sicilia). La vicinanza al fraseggiare rapido e sciolto di La Capria hanno poi portato leggerezza del cuore e uno spiritoso sosiego, così tipici del suo timbro di voce. Ne risulta in Perrella un andamento sinuoso e serpentino, come la lettera “s” che è iniziale dei sostantivi segnavia: scorcio, saliscendi, scale, scoscendimenti, strati, succorpo, solchi, spellature. Sono le ricorrenze di un fraseggiare festivo di sguardi e scorciato, fino alla pelle dei manufatti di cui narra.

Dante, qui semplice patrono di tutti i pedoni del mondo petroso, al solito suggerisce: «Scale, scalee, scaglioni, balzi, gradi li aveva disegnati [il corsivo è mio] Dante nel Purgatorio […] lessico arguto appuntito e ascendente» – come l’allitterazione che lo dice, figura retorica ricorrente in “Petraio”. Disegno, arte della linea: è fondamento della misura che il vagante cerca d’istinto in una facciata di chiesa o palazzo, come negli spazi disposti tra pareti e facciate che sono architettura, l’arte del genius loci. L’architettura è l’arte che possiamo percorrere: è fatale che Perrella sia sempre in consonanza con quella; e il disegno, la linea che guida l’occhio del vagante; ma non la pittura: come Italo Calvino e quasi tutti dopo di lui, Perrella è renitente al colore, non intende le forme di colore: le legge come iconografie, non come forme. Non è un caso che le prose che più cedono al luogo comune sono quelle dove è in scena la pittura, in qualsiasi ruolo. L’architettura, è luogo all’autore.

“Petraio” è un Tesoretto del narratore urbano, articolato in tre parti (“Tufo”, “Calcare”, “Pomice”), intervallate da sequenze fotografiche di Antonio Biasucci, fotografo con il quale Perrella dice di sentire «una fratellanza della percezione». (Sono, a giudicare dalle riproduzioni, apparizioni di materia e segni). È un libro di visioni della materia. Nell’era della virtualità, della velocità di connessione, della visibilità idiotica Perrella ci dice il tempo geologico, il tempo della materia e il suo lento consumarsi, il tempo dei passi lungo strade e scalinate, il tempo delle funicolari urbane («Le funicolari sono gli orologi delle città a scoscendimento. Ne scandiscono le giornate. Sono clessidre dentro le quali entrano uomini e donne, giovani e vecchi» – reminiscenza caproniana). Il tempo delle pietre, e il tempo della clessidra.

Nessuna retorica della porosità, tanto cara agli orecchianti – e mai ricorre la parola flâneur, la stucchevole spezia del trito letterario dei suddetti. Perrella lo mette subito in chiaro: «C’è una retorica del tufo da cui tenersi alla larga. Ciò non significa che il tufo non ci sia. E fa impressione vederlo venire fuori dagli strati successivi […]. Oggi affiora nelle vicinanze dello scuro e potente piperno […] vien voglia di passargli sopra le dita per portarsi sui polpastrelli la sua polverina […]. Il tufo scorre nei muri, come dentro la clessidra; è il suo tempo a dare un ritmo ai pensieri; è il suo tempo a comunicarci il passare delle stagioni e il nostro improvviso voltarci verso qualcosa che c’era e adesso non c’è più». Una bella figura, quasi prosopopea, a dire l’intento: lo spazio e così l’architettura e la sua materia; il tempo e il suo lavorare la materia. Altrove, doppia sinestesia e ossimoro: «Geometrie di tempo. Incantesimi di pietra». Di nuovo, una prosopopea: «Parlottio delle pietre». Materia viva.

Il vagante urbano e di battigia che sa l’architettura e la linea gioca a inquadrare: «È stato detto: per vedere bisogna avere visioni. E ci sono pochi dubbi: la visibilità del mondo si acuisce se la si incornicia». La cornice è prospettiva. La cornice del mondo la offre l’architettura della città: il gioco dei pieni e dei vuoti, di cornici(oni) e di finestre, di altane e di balconi. Il gioco del dentro e fuori. La cornice dello scrittore è il luogo della sua scrittura. (Uno scrittore si distingue da uno scrivente per quello: sa qual è il luogo della sua scrittura: sa cosa cercare e dove: la sua lingua lo rivela). L’occhio di Perrella corre alle finestre, cornici per eccellenza: dal dentro al fuori e viceversa. Finestre, finestre, finestre. Sono figure: due finestre a sesto quasi acuto, aperte a far ombra sulla gialla parete e «soprattutto simmetriche» (allitterazione rivelatrice); un’altra solitaria su un alto muro, un occhio napoletano; e le tendine bianche trattenute da un fiocco al fondo di domestica finestra («È teatro dell’urbano: vi si recita la decenza») diventa reminiscenza quasi montaliana.

Protagoniste delle prose più grafiche (“a scorfano”, si potrebbe dire) sono le pietre – e non potrebbe essere altrimenti. I bàsoli napoletani delle salite e discese, neri, come nella elegante Catania (il Mongibello porta doni); le distese di bàsole, bianche a Bari e Lecce, e più massicce e oltrebianco, nella città regale: «Le bàsole bianche scintillano nella notte erotica di Palermo». Chi può dimenticarle? C’è tanto bianco, in “Petraio”. Bianco domestico e quotidiano: «Bianco su bianco, pochi fronzoli: terrazzo (adorno di vasi in terracotta), porta-finestra e cornice soprastante con un rettangolo istoriato. È tutto». Il bianco mediterraneo che induce al silenzio, il balsamo oramai raro, chimerico. «Bianco su bianco: ecco uno scorcio che suscita pensieri netti e precisi; quei pensieri che è meglio tenere per sé, almeno finché un lungo silenzio non li abbia messi alla prova». Per questo, noi camminiamo.

C’è il regalo del cielo e c’è il regalo il mare, con il suo corredo di isole. «Questo cielo è un regalo. Così ritagliato, così rettangolare è come un lungo respiro. Allude forse a un cammino che va fatto e del quale ti sei dimenticato la direzione». Cielo e geometria: difficile dire meglio la classicità. Nella città, «cielo a squarcio». Delle isole e dell’Isola non vale dire: sono desiderio e rimorso. Come Palermo, che ritorna e ruggisce di forme («i marmi mischi di Palermo»). Prima o poi andrà saldato, in oro sonante e nient’altro. L’Isola non ammette «pura narratività».

Silvio Perrella offre al lettore un almanacco, meglio, un lunario del narratore urbano a cui affidarsi per un respiro dello sguardo, prima di iniziare a spiccare tutti i “no” a cui obbliga la vita al tempo dell’inconsistenza. (Non “I Ching”, come recita il risvolto: Almanacco, Lunario, Tesoretto: a scelta). È il primo passo di un cammino periglioso e di possibile splendore narrativo: ha dalla sua quel che serve: la lingua italiana, levigata dall’esercizio della saggistica narrativa. Buon viaggio.

Silvio Perrella, “Petraio”, La nave di Teseo, 2021, 384 pagine, 25 euro

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