Un maestro di tumultiPer László Krasznahorkai, l’Apocalisse non è la fine del mondo

“Seiobo è discesa quaggiù“ è una raccolta di quadri narrativi dello scrittore ungherese, dove la Bellezza è indicata come messaggera di salvezza. Un flusso in cui spiccano istanti di cristallizzazione del vero, del sublime e del sacro

LaPresse

Che apertura di stagione – Marilynne Robinson e László Krasznahorkai, uno dopo l’altro. Come a dire due dei grandi scrittori d’oggi (si contano sulle dita di una mano) e con due splendidi libri. Il romanzo della Robinson è coronamento e tavola centrale del trittico che è il suo secondo capolavoro (il primo è “Housekeeping“); la raccolta di quadri narrativi di Krasznahorkai è il miglior viatico all’opera tutta e alla poetica di un maestro di apocalissi e splendori, ungherese e giramondo.

Il primo libro di Krasznahorkai che ho letto è stato “Guerra e guerra“ (subito seguito da “Satantango“), il romanzo della madre di tutte le perdite: la perdita della Bellezza, del senso di quella e del suo valore fondante. Chi sa la bellezza sa che la sparizione di una foresta o di una specie animale sono conseguenza della perdita originaria. La storia di Korin, oscuro archivista che rinviene un fascicolo che scopre essere un manoscritto di incomparabile bellezza, e lascia tutto, lavoro famiglia nazione, per raggiungere New York e svolgere la misteriosa missione di cui si sente investito è esemplare e favolosa. New York, una Babele contemporanea, e un uomo investito del sacro e del sublime: è il Leitmotiv del flusso di linguaggio.

L’esorbitanza del non-senso e della chiacchiera, il crepitare di concetti nati morti e lo zampillare ininterrotto di immagini nate idiotiche costituiscono gli elementi di quel rumore di fondo che è l’arma vera dei dominanti, coloro a cui «appartiene tutto ciò che può essere ottenuto» – e fin qui, non importa; e compresi il bene e il sublime, snaturati attraverso una «subdola, folle, rivoluzione della falsificazione delle misure e dei contenuti, delle proporzioni e delle grandezze» – e questo non va per niente bene a Krasznahorkai e a pochi altri, compreso me che scrivo.

(A proposito di misure: i quadri/racconti raccolti in polittico/libro sono diciassette e sono numerati secondo la successione Fibonacci. Non è un vezzo: la successione Fibonacci ha rapporto con la sezione aurea, tanto da esser detta “successione aurea”: al tempo della Bellezza erano i numeri dell’armonia).

Ora, la strategia narrativa dello scrittore è quella di rappresentare il flusso demente in modo mimetico, vien da dire figurativo: un flusso narrativo continuo e avvolgente, con paragrafi che durano pagine prima di trovare il primo punto fermo. (Memorabile la New York babelica e neo-balcanica di “Guerra e guerra“). Dentro questo flusso spiccano istanti di cristallizzazione del vero: sono momenti del sublime e del sacro: ierofanie che indicano e bastano a una vita. Tutto in diretta.

Così i quadri (poi ci torno) narrativi di “Seiobo è discesa quaggiù“ sono una perfetta epitome della poetica di Krasznahorkai e degli splendidi compimenti a cui attinge. L’incipit del primo quadro/racconto: «Intorno a lui tutto si muove, tutto fluisce, come se per una volta, una soltanto, da un mondo lontano, in qualche misteriosa maniera, sconfiggendo ogni più assurdo ostacolo, forse trascinato da una corrente profonda del fiume, fosse giunto fin qui il messaggio di Eraclito, tutto scorre», e così via per tre pagine e due righe, prima del punto. Il «lui» in questione è un Ōshirosagi, l’airone maggiore bianco, immobile e in piedi nell’acqua del fiume Kamo, in attesa di quell’unico istante in cui fulmineo il suo becco farà la sua parte: «È per questo che sta lì immobile in un tempo che non può essere misurato dal suo scorrere […] ed è contro una tale forza che la sua immobilità deve imporsi e mantenersi». Voilà il lavoro dell’artista/uomo: rimanere fermo impassibile mentre intorno il flusso idiotico di immagini riprodotte e «pura narratività» scorre e ottunde, in attesa del momento sublime e inavvertito in cui il becco scatta e trova il giusto.

Il punto è la terza parola fondamentale: attenzione. Bellezza, sublime, attenzione. Lo Ōshirosagi bianco è «l’artista indiscutibile di questo paesaggio [il paesaggio del Tempo: il rumore di fondo delle vite che scorrono], l’artista che con un’estetica senza pari di perfetta immobilità, compimento artistico dell’attenzione assoluta, trascende al contempo tutto ciò a cui altrimenti dà senso, trascende e si eleva al di sopra della folle cavalcata delle cose che lo circondano». Non si potrebbe dir meglio.

Lo scrittore, colui che dice il mondo in forma di parole, è colui che è capace della attenzione assoluta, come lo Ōshirosagi bianco sul fiume.

Ciascun racconto di Krasznahorkai è il quadro di un pittore visionario tra Anselm Kiefer e un ignoto, in cerca dell’istante «di cui niente può superare e nemmeno uguagliare la durata»: l’istante della rivelazione di una forma e così della sostanza, di cui non si può dire. La si può indicare in forma di colore (parole).

L’istante della rivelazione della bellezza del mondo e l’armonia della creazione non è programmabile, non dipende dalla volontà. Nel quadro/racconto “In cima all’Acropoli“, un turista (forse) ungherese raggiunge Atene con lo scopo di vedere l’Acropoli, l’unico atto che ha sempre voluto e vuole compiere. Raggiunge il luogo non senza inciampi e quando sale lungo i Propilei e raggiunge il recinto sacro non riesce a aprire gli occhi per via della luce abbagliante: l’istante è negato: c’è cecità. Il sublime non è alla portata della nostra volontà e visione. In “Passione privata“, un architetto che non realizzerà mai un’architettura un giorno ha ascoltato dalla radio uno degli oratori di Caldara, la “Santa Francesca Romana“, ed è stata la rivelazione della bellezza assoluta: la musica barocca, poi soprattutto Johann Sebastian Bach: non avrà bisogno d’altro, nella vita. Non poteva immaginarlo.

“La vita e l’arte del maestro Inoue Kazuyuki“ è il quadro/racconto centrale del polittico di László Krasznahorkai. Nell’incipit, in prima persona singolare, la dea Seiobo dice di aver dovuto scendere in forma terrena da quel mondo «ove la forma risplende, sgorga, fluisce, e così il nulla riempie ogni cosa», deve farlo ancora una volta, «entrare nell’istante, di cui niente può superare, e neppure eguagliare, la durata», l’istante in cui è contenuto tutto lo splendore da cui discende, e apparire lungo il corridoio del palcoscenico del Kanze Kaikan di Tokyo, «nel nobile splendore del kimono karaori», per raggiungere il principe Zhou, il sovrano pacificatore e così meritevole, per fargli dono dei semi della pianta immortale e poi tornare nel regno che è della Luce e incomprensibile: «È qui che posso rimettere la mia corona sulla testa, è qui che posso pensare che Seiobo è stata laggiù».

Uno stacco e il narratore ci dice il fastidio del maestro Kayuzuki, grande interprete del teatro Nō: vorrebbe rimanere solo, conservare intatta «l’infinita gioia e calma» dell’esecuzione, invece non è così, gli assistenti lo pressano, lo aiutano a togliere gli abiti di scena, deve andare al ricevimento e ricevere e offrire omaggi. Il Tempo e il suo rumore di fondo. Il maestro vorrebbe rimanere solo e non può farlo. Lui sa quel che conta e lo sa attraverso il Nō: tutto accade in un unico tempo e in unico luogo e insieme a te, non c’è posto per la speranza e il miracolo: tutto accade come deve accadere: ogni giorno è un giorno intero, completo, eterno. L’istante. Prima dello spettacolo il maestro per restare solo, recitare la preghiera si rifugia in bagno: in ginocchio sulla pietra, ringrazia il Cielo per la pace e il silenzio del cesso. Preme il pulsante dello sciacquone, poi si avvia a indossare il vestito e la maschera di Seiobo, di modo che la dea possa apparire dentro di lui e sul palco. Oggi è sempre. Ecco la strategia: un colpo di sciacquone e poi il palco.

“Seiobo è discesa quaggiù“ è una lettura e un tumulto, fastoso di figure d’attenzione, artisti come saltimbanchi in un circo di petulanti pataccari: una sorta di Libro d’Ore senza l’azzurro del Cielo e col terrore di quella privazione. Krasznahorkai ci dice che l’Apocalisse non è palingenesi e fine del mondo: è in atto, prospera, banchetta sulla nostra accondiscendenza. Di nuovo, come un altro maestro di tumulti prima di lui, indica la Bellezza come messaggera di salvezza.

László Krasznahorkai, “Seiobo è discesa quaggiù“, Bompiani, 2021, 516 pagine, 25 euro, traduzione di Dóra Várnai

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